In primo luogo, mi sembra innegabile che il superamento del bicameralismo perfetto sia certamente qualcosa di cui da tempo si discute. La presenza di due Camere con medesime funzioni, entrambe elette a suffragio universale e diretto ha rappresentato, come è noto, il frutto di un dibattito lungo e articolato all’interno dell’Assemblea costituente. Un dibattito che, tuttavia, non ha potuto produrre null’altro che un compromesso che ha rappresentato, rispetto a posizioni assolutamente distanti, l’unico possibile punto d’incontro tra chi, come la democrazia cristiana e i liberali, avrebbero voluto fare del Senato il luogo della rappresentanza territoriale e, anche, del pluralismo economico e sociale del nostro Paese, e chi, più incline alla soluzione monocamerale, avrebbe potuto accettare un modello bicamerale solo se la seconda Camera avesse avuto le medesime funzioni della prima e, soprattutto, solo se fosse stata eletta direttamente dal popolo.
L’insoddisfazione per la soluzione accolta è presente in dottrina sin da subito e nel dibattito politico non tarda ad emergere anche la necessità di porvi rimedio già a partire dagli anni ’80, a tal punto che potremmo affermare che tutti i tentativi di riforma costituzionale, nessuno fino ad oggi giunto a compimento per ragioni politiche, siano accomunati proprio dalla volontà, variamente declinata, di superare quella che rappresenta certamente un’anomalia nel panorama dei modelli bicamerali. Sotto questo profilo, quindi, l’attuale progetto di revisione costituzionale Renzi-Boschi che ha tra i suoi obbiettivi il “superamento del bicameralismo perfetto”, tenta certamente di affrontare proprio uno dei principali nodi a tutt’oggi irrisolti della seconda parte del testo della Costituzione del 1947.
Se questa è dunque una prima fondamentale premessa rispetto all’obiettivo centrale dell’intera riforma, ovvero il superamento del bicameralismo perfetto, cerchiamo ora di comprendere lungo quali direttive tale scelta si muova. Il primo indicatore può certamente essere costituito da quanto previsto dall’art. 55 del testo di riforma che stabilisce che “il Senato rappresenta le istituzioni territoriali”, mentre ciascun membro della Camera dei Deputati “rappresenta la Nazione”. Come abbiano già accennato non da ora in Italia si discute dell’esigenza di individuare un luogo di rappresentanza territoriale, una sede in grado di dare voce alle istanze provenienti da livelli di governo inferiori a quello statale. L’impossibilità di trovare all’epoca un valido punto di incontro tra forze politiche derivava anche dal fatto che tra queste si stava consumando, all’avvio della cosiddetta guerra fredda sul piano internazionale, una frattura che sarebbe durata a lungo e che le conduceva ad operare innegabilmente scelte che non mettessero certo in discussione equilibri politici delicatissimi in quella che era la nascente democrazia italiana. Quell’esigenza però, già allora chiaramente emersa, di rappresentanza del pluralismo territoriale non ha certo potuto dirsi superata nel tempo.
A tale pluralismo si è tentato invero di dare risposta con la riforma nel 2001 del titolo V della Costituzione, seguendo in questo caso la strada della valorizzazione delle regioni attraverso la valorizzazione delle competenze legislative ad esse attribuite. Come è noto, tale strada si è tuttavia rivelata, anche in ragione di alcuni evidenti limiti che hanno caratterizzato quella riforma, irta di ostacoli, soprattutto per aver prodotto un gran numero di conflitti tra Stato e regioni che hanno chiamato in causa la Corte costituzionale quale unico possibile organo in grado di risolverli, sia pure solo ex post. Sembra quindi innegabile che oggi la riconformazione della seconda Camera quale luogo di confronto e di mediazione tra istanze territoriali e bisogni dello Stato centrale, anche in funzione di superamento del potenziale contrasto tra Stato e regioni, sia un’esigenza non più eludibile.
Facile comprendere come peraltro strettamente collegata a questo aspetto della riforma sia quella che riguarda il titolo V, già oggetto, come abbiamo appenna accennato, di una riforma nel 2001, da più parti criticata proprio per quanto si è poc’anzi evidenziato. Per ragioni di spazio in questa sede possiamo solo limitarci a ricordare che nell’attuale progetto di riforma si tenta di eliminare alcuni degli aspetti che sono apparsi nel tempo più macroscopicamente problematici, quali la previsione di una legislazione di tipo concorrente, attraverso l’eliminazione di questa e la riconduzione al centro, peraltro in linea con la giurisprudenza prodotta in questi anni dalla stessa Corte costituzionale, di alcune materie precedentemente attribuite alla competenza della Regione.
L’altro aspetto a questo strettamente connesso attiene però al ruolo che sarà chiamato a svolgere il futuro Senato, in primo luogo con riferimento alla possibilità che alcune delle previsioni contenute nella riforma costituzionale siano in grado di configurare effettivamente la seconda camera quale luogo della rappresentanza territoriale e non quale inutile riproposizione di una Camera di rappresentanza politica. L’argomento è in particolare quello di chi ritiene criticabile la scelta compiuta dal legislatore di riforma di non riproporre in Italia il modello del Bundesrat tedesco nel quale, in particolare i delegati regionali – in quel caso delegati dei governi dei singoli Länder – non possono votare singolarmente, ma è previsto unicamente un voto per “delegazione”, ovvero unitario. Eventualità che nel nostro caso – nel quale, ricordiamo, i rappresentati sono eletti dai consigli regionali tra consiglieri e sindaci (74 consiglieri regionali e 21 sindaci) – appare esclusa in forza del mantenimento della garanzia del divieto di mandato imperativo di cui all’art. 67 della Costituzione.
Tale divieto, infatti, esclude l’obbligo per i delegati regionali di conformarsi alle indicazioni eventualmente provenienti dalla Regione o meglio dal Consiglio regionale di appartenenza. Tale esclusione, tuttavia, deve necessariamente tradursi nel fatto che i consiglieri regionali voteranno sempre e solo sulla base delle indicazioni provenienti dal partito di appartenenza? Mi sembra che tale evenienza sia da escludersi laddove la si ritenga come unica soluzione possibile. E’ evidente come molto dipenderà dal modo con il quale i senatori interpreteranno il proprio ruolo, ma è indubbio il fatto che la riforma renda possibile per i senatori operare di volta in volta, su singoli aspetti, scelte dettate dall’appartenza politica, ovvero scelte operate sulla base di accordi trasversali rispetto alle appartenenze politiche realizzando quindi, rispetto ad interessi comuni, un allineamento secondo logiche territoriali e non secondo logiche necessariamente politiche.
D’altronde la presenza di consiglieri appartenenti anche ai partiti di minoranza dovrebbe proprio condurre ad escludere, come è stato a ragione evidenziato (D’amico – Arconzo – Leone, 81) un appiattimento su logiche maggioritarie. Con riferimento poi al ruolo che il Senato potrà svolgere, gli spazi di intervento con riguardo alle funzioni ad esso attribuite non sembrano certo mancare. Oltre alle funzioni legislative bicamerali e alla possibilità di intervenire rispetto alla legislazione monocamerale, mi riferisco in particolare a tutte quelle funzioni nuove, quali ad esempio quelle relative alla valutazione delle politiche pubbliche e dell’attività delle pubbliche amministrazioni e alla verifica dell’impatto delle politiche europee sui territori, che oltre a rappresentare funzioni di controllo inedite sembrano avere potenzialità ancora tutte da esplorare rispetto alla possibilità di fare del Senato un organo con poteri di supervisione e controllo (Morrone, 48).
L’altra direttiva lungo la quale la riforma si muove è quella di garantire una maggiore stabilità del governo, obiettivo che viene perseguito proprio attraverso la semplificazione che consegue al fatto che la fiducia sarà accordata e revocata dalla sola Camera dei deputati, coerentemente alla scelta di fare di questa sola Camera la sede della rappresentanza politica.
Ci si potrebbe domandare se tale elemento sia da solo sufficiente a garantire maggiore stabilità e, conseguentemente, il superamento della conflittualità politica che ha impedito fino ad oggi di poter fare della nostra democrazia una democrazia effettivamente governante. Evidentemente no, poiché non può negarsi come molto dipenda dal quadro politico complessivo e dalla solidità della maggioranza e quindi anche da una valida riforma elettorale. Tuttavia non può del pari essere sottovalutato il peso della doppia fiducia nella difficoltà di azione o della stessa formazione dei governi, come anche la storia recente ci mostra. Senza dimenticare infine che a tale elemento di razionalizzazione della nostra forma di governo parlamentare – che tale rimane – si accompagnano altri strumenti di non poco rilievo quali la costituzionalizzazione dei limiti al ricorso al decreto legge e il cosiddetto voto a data certa. Con il primo strumento si costituzionalizzano limiti già previsti dalla legge n. 400 del 1988 con l’intento di ottenere l’effetto di limitare il ricorso a tale strumento da parte del governo. Con l’altro si consente al governo di richiedere alla Camera dei deputati, escluse alcune materie di particolare rilievo, di deliberare in tempi certi su un testo indicato come essenziale per l’attuazione del programma di governo.
Se per un verso è evidente che ci troviamo di fronte a strumenti messi a disposizione del Governo per incidere sul procedimento legislativo e per realizzare in tempi certi e con il riconoscimento di una corsia preferenziale il proprio programma, non va sottociuto anche l’altro lato della medaglia rappresentato dal fatto che per tale via si riconduce alla sede parlamentare la produzione legislativa del governo, evitando la prassi, nell’attuale sistema largamente diffusa, delle varie “scorciatoie” utilizzate dal governo, al limite dei confini imposti dalla Costituzione in un sistema parlamentare, al fine di realizzare il proprio programma. Una riconduzione quindi nell’alveo parlamentare che non può che implicare non solo una maggiore fluidità e coerenza dell’azione politica del governo, ma anche una valorizzazione del ruolo Parlamentare fin troppo marginalizzato nell’attuale contesto.
Sulla base quindi di quanto sin qui osservato sembra innegabile il fatto che la riforma dia risposta a molti nodi lasciati irrisolti nel nostro parlamentarismo a debole razionalizzazione senza per questo stravolge l’impianto complessivo del nostro sistema che rimane parlamentare. La semplificazione e la razionalizzazione di questo modello non possono che essere riguardati come aspetti positivi di una riforma alla quale bisogna riconoscere il merito di aver tentato di intervenire oltre che nel modello bicamerale e nella valorizzazione del “governo in Parlamento” con riferimento alla funzione legislativa del governo, anche in altri ambiti quali il rapporto Stato – Regioni nel senso del riequilibrio verso il centro dei poteri affidati alle regioni nel 2001 e la valorizzazione degli strumenti di democrazia diretta. Contesti nei quali sarà necessario tornare a riflettere anche nel caso in cui l’esito del referendum dovesse essere negativo. Ciò non significa certo né che la riforma sia perfetta, né che sia possibile oggi prevedere in ogni aspetto quale sarà in concreto l’applicazione della riforma stessa. Ciò non toglie tuttavia che il bilancio sia complessivamente positivo, in particolare in relazione agli aspetti evidenziati e se pure molta strada dovrà essere percorsa per superare i molti difetti che assillano il nostro sistema politico e istituzionale la riforma costituzionale può essere considerata un buon punto di partenza.