Così, nelle scelte di merito – per definizione sempre perfettibili, proprio perché fondate non nella fredda accademia ma nel caldo del compromesso politico (fatto che porta sempre critiche, lo fu allora anche per la nostra Costituzione, basti rileggersi cosa dichiarava Meuccio Ruini il 22 dicembre 1947 nella Seduta antimeridiana dell’Assemblea Costituente, nella votazione finale che approvava la Costituzione) – il referendum parla pure contro quello spirito di rassegnazione e di declino, anche economico, che domina ancora troppa opinione pubblica.
Sarà un voto importante per tanti aspetti, dunque. Per dare e per avere fiducia, per essere e per dimostrarsi finalmente maturi. Perché, facendoci fare un passo in avanti nell’aggiornare la nostra Costituzione e le sue istituzioni al tempo che cambia, ci consentirà anche di superare le paure, gli egoismi e le divisioni politiche che hanno bloccato il Paese, dando contemporaneamente un segnale forte di stabilità.
Una bella opportunità, insomma. Davvero, da non sprecare.
E’ tempo, infatti, di superare l’anomalia di un Paese fondato, a partire dal funzionamento delle sue istituzioni, sulla diffidenza reciproca tra le forze politiche – un fatto in sé comprensibile allora al tempo della guerra fredda, ma del tutto ridicolo ora, al tempo della globalizzazione e dell’Unione europea – votando, appunto, sì al referendum di autunno, sanando quelle scelte istituzionali che, incentivando i veti reciproci dei partiti in Parlamento, cancellano il valore dei voti degli elettori nell’urna.
In tal senso, vi sono almeno tre punti da superare: il bicameralismo paritario, costruito per rallentare strutturalmente la soluzione parlamentare dei problemi; un governo per natura instabile, non a caso se ne sono avuti 63 in 70 anni, con l’attuale che è già il sesto nel ranking della longevità; un rapporto tra Stato e Autonomie, sempre oscillato, in modo confuso, tra uno sbilanciamento eccessivo in favore dell’uno o, dopo il Titolo V del 2001, delle altre.
Eppure, nonostante ciò sia, da oltre trent’anni, patrimonio comune degli studiosi, della politica e, ormai, anche dei cittadini, tutti i tentativi di riforma sono falliti.
Perché? Sinteticamente, si può dire per paura – e per interesse – che nulla cambiasse.
Non è un caso, d’altronde, che la riforma nasca su tre ragioni ulteriori, di contesto, che le danno forza: la debolezza delle nostre istituzioni, soprattutto di fronte alle due crisi economiche che dal 2006 attanagliano il mondo; l’esito elettorale del 2013, senza vincitori, che stava per trasformare un sistema politico bloccato in una crisi istituzionale, evitata dalla rielezione del presidente Napolitano; infine, l’aumento del populismo, che diviene lo strumento per bloccare – corrodendole da dentro – le stesse istituzioni.
Da qui, una più forte necessità di riforma.
Questa, evita, con saggezza, quattro punti che, in vario modo, hanno fatto naufragare quelle del passato: infatti, non modifica la Parte prima della Costituzione, quella dei valori; non la forma di governo, che rimane di tipo parlamentare; non i poteri del Capo dello Stato; né infine le garanzie, da quelle della magistratura, che rimangono, appunto, intatte, fino a quelle della Corte costituzionale che, tramite il ricorso preventivo contro la legge elettorale, si vede aumentati i poteri.
Così, con precauzione, nel metodo, rispettando l’art. 138 Cost., approvando tutto in Parlamento (senza leggi speciali o bicamerali di sorta), ricercando comunque il referendum confermativo e distinguendo la maggioranza per le riforme da quella per il governo, la revisione prevede, nel merito, tre principali innovazioni: modifica il bicameralismo paritario; razionalizza il rapporto tra lo Stato e le autonomie; semplifica ed innova il procedimento legislativo e i livelli istituzionali, tagliando pure costi e sprechi.
Vi è così un bicameralismo differenziato: con la Camera che, espressione dell’indirizzo politico, la sola legittimata da un voto popolare diretto, è l’unica titolare del rapporto fiduciario, prevalendo nella legislazione rispetto al Senato, a partire dalla legge di bilancio. E un Senato di 100 componenti che, dando finalmente una sede costituzionalmente chiara all’identità del Paese, rappresenta le istituzioni territoriali, curando innanzitutto l’impatto delle politiche dell’Unione europea sui territori e la valutazione delle politiche pubbliche e dell’attività̀ delle pubbliche amministrazioni nonché, in poca parte, intervenendo nella legislazione che inerisce le autonomie e le grandi decisioni che restano di tipo bicamerale.
Sostengono i contrari che la lunghezza dei tempi del nostro bicameralismo – un «doppione inutile» come lo bollò Costantino Mortati – sia figlia della politica, non della meccanica. Può darsi, tuttavia le istituzioni servono a prevenire i comportamenti sbagliati, non ad incentivarli.
Viene poi modificato il rapporto tra lo Stato e le Autonomie, sopprimendo il “tiro alla fune” delle competenze concorrenti – che tanto contenzioso hanno comportato – tramite una redistribuzione delle materie tra quella esclusiva statale e quella regionale, sapendo meglio “chi fa cosa”, e rafforzando il numero delle materie in capo allo Stato (per es: energia e grandi infrastrutture).
La riforma contribuisce a risolvere la confusione del rapporto tra Stato e Regioni, figlia della riforma del titolo V del 2001, legata alla sovrapposizione delle materie su cui Stato e Regioni possono legiferare, ma anche – prima ancora – del ritardo trentennale con cui si è data attuazione del testo costituzionale relativo alle Regioni. Il risultato è che oggi il Paese non sa più – ammesso che l’abbia mai saputo – quale sia il rapporto tra i soggetti legislatori del suo ordinamento. E starà appunto alle Regioni dimostrare la loro capacità di essere all’altezza delle sfide del tempo di oggi. Non farlo d’altronde, non farà altro che contribuire alla loro delegittimazione. La riforma, invece, tramite il nuovo Senato, ridotto da 315 a 100 componenti (di cui 74 consiglieri regionali e 21 sindaci, e 5 senatori nominati dal Capo dello Stato per 7 anni), permetterà alle istituzioni territoriali di concorrere all’esercizio della funzione legislativa, sebbene per pochi casi specifici; consentirà la partecipazione delle istituzioni territoriali alle decisioni dirette alla formazione e all’attuazione degli atti normativi e delle politiche dell’Unione europea; consentirà la valutazione delle politiche pubbliche e dell’attività̀ delle pubbliche amministrazioni da parte delle istituzioni territoriali, nonché permetterà di verificare l’impatto delle politiche dell’Unione europea sui territori.
Davvero non mi pare poco come cambiamento. E poi, al tempo stesso, modificando il rapporto tra lo Stato e le Autonomie, si darà maggiore certezza del diritto (e dei diritti), sapendo bene, appunto, chi fa cosa, peraltro incorporando la giurisprudenza della Corte costituzionale di questi quindici anni. E anche questo non è poco. Infatti, far capire oggi dove è la responsabilità della decisione, con trasparenza e chiarezza, è la grande sfida in capo alle democrazie: un elemento che questo testo mi sembra proprio che colga come scelta da valorizzare e sostenere. Insomma, non è una riforma contro le Regioni. Anzi, se sapranno guadagnarsela governando bene e se manderanno la gente giusta al Senato, premiando il merito, avranno molta più forza di quanta ne hanno ora.
Sostengono i contrari che questo sia un fare centralista che uccide l’autonomia regionale. Si vedrà. Al di là delle poche virtuosità regionali di questi anni, l’incentivo ad un regionalismo differenziato – fondato però sulla qualità del buon governo – dice esattamente l’opposto.
Vi è, infine, un nuovo rapporto tra Governo e Parlamento che evita l’abuso della decretazione d’urgenza, introduce, per i disegni di legge essenziali, un fast-track di approvazione.
Sostengono i contrari che ciò, unito alla legge elettorale, darà al governo un indebito potere. Ritengo che non sia vero: perché legare la riforma costituzionale ad una legge, per natura transeunte, come quella elettorale (dal 1993, ne abbiamo avute già 3!), ci lascia comunque cattive istituzioni. E perché è proprio la stabilità del governare – responsabilità e identificabilità delle scelte – la cura reale all’antipolitica.
Peraltro, il continuo parlare solo della legge elettorale, e non della riforma costituzionale, serve appunto ad offuscare il senso di una riforma molto importante, la quale naturalmente dura molto più, appunto, di una legge elettorale.
Ultimo, ma non ultimo, viene realizzata una sorta di “semplificazione” che, utilizzando tutti gli strumenti e tutte le istituzioni, valorizza sempre e comunque l’indirizzo politico espresso dalla volontà degli elettori: da un lato vi è la cancellazione del Cnel, un organo che ormai davvero ha fatto il suo tempo; dall’altro, oltre alla ristrutturazione positiva dell’istituto referendario e degli strumenti di democrazia diretta, vi è l’introduzione della “trasparenza” in Costituzione, nel senso che nella nuova Costituzione all’art. 97 ci sarà il richiamo al principio di trasparenza nell’organizzazione dei pubblici uffici. Un fatto non banale né scontato, ahimé. E che valorizza i già indicati principi di imparzialità e buon andamento contenuti in costituzione insieme ai principi, delineati già dal 1990 nelle leggi ordinarie sulla attività amministrativa, quali appunto l’economicità, l’efficacia e la pubblicità che, insiti nel concetto di trasparenza, nei fatti assumono una forza nuova, giustiziabile con maggiore forza oggi – proprio perché elevato a rango costituzionale il tema della trasparenza – di fronte ai giudici, da chi si sente leso di un suo diritto.
Si poteva fare di più? Sempre si può. Tuttavia questa riforma è positiva almeno per tre grandi ragioni: perché è nel pieno solco della nostra tradizione costituzionale, perché la prospettiva delineata evita un nuovo eccezionalismo di un Paese fondato sui veti, invece che sui voti e perché fa, appunto, del voto dell’elettore il cuore della stabilità delle istituzioni.
Di questi tempi, davvero non mi pare poco.