La nostra epoca è segnata dall’invadente onnipresenza dello sport: lo sport è un rumore di fondo planetario (una musica secondo altri) che condiziona la percezione della realtà e di noi stessi. Se ci soffer-miamo a pensare, pochi fenomeni sociali hanno una visibilità pari a quella dello sport. Esso sembra costi-tuire un ambito distinto e autonomo della nostra esperienza sociale: esiste una cronaca sportiva che occupa una quota fissa delle pagine dei quotidiani, programmi televisivi sullo sport. Anche la percezione del tempo appare scandita dalla presenza dello sport: i calendari delle varie attività agonistiche scandi-scono il ciclo dei mesi e delle settimane dei nostri ragazzi e i nuovi riti domenicali, celebrati allo stadio o al palazzetto dello sport, si sovrappongono alle tradizionali pratiche religiose festive. Possiamo quindi sottolineare come lo sport sia oggi radicato nel nostro tessuto economico e sociale, costituendo una parte integrante dello stile di vita e dei comportamenti individuali di un numero sempre crescente di cittadini.
Anche da un punto di vista educativo lo sport sembra ricoprire un ruolo importante: gli chiediamo e ci aspettiamo (almeno apparentemente) tanto, forse troppo. Si parla infatti di finalità educativa, preventi-va, sociale, di educazione alla legalità ed alla democrazia (formare cittadini ancora prima di atleti). Ma proprio nel momento in cui allo sport viene riconosciuto il ruolo di importante agenzia educativa, assi-stiamo sempre più frequentemente a fenomeni di mala-educazione, di eccessi, di violenza, di illegalità (pensiamo al doping e agli interessi che ruotano intorno ad esso) e purtroppo anche di abbandono precoce.
Questa sorta di “dissonanza” tra il pensato e l’agito ci porta inevitabilmente a fare un riflessione tanto importante quanto complessa su quale sia il ruolo dello sport nella nostra società. Adottando una famosa definizione dell’antropologo Marcel Mauss, possiamo parlare della pratica sportiva nei termini di un “fatto sociale totale”, ovvero di un complesso di attività il cui significato abbraccia ambiti distinti: da quello puramente sportivo a quello politico. Lo sport rappresenta infatti un fenomeno dalle molteplici implicazioni, rispetto alle quali la sua interpretazione come mero fatto sportivo sarebbe destinata al fallimento. Lo sport è un fatto sociale totale, nel senso che esso mostra implicazioni di carattere culturale, politico, giuridico, ed economico, in grado di trasmettere modelli di vita e pratiche di comportamento più o meno virtuose: lo sport è lo specchio della nostra società.
Da dove nasce questa dissonanza? Da una parte troviamo un mondo, che è quello psico-pedagogico che a gran voce “indica” nell’esperienza sportiva un momento di formazione non solo motoria, ma anche psicologica affettiva/emozionale e relazionale, contribuendo alla formazione della personalità dei sog-getti coinvolti: un mondo che ci dice che lo sport rimane ancora una possibilità di promozione sociale, di educazione alla legalità, di competizione civile e regolata. Dall’altra ci scontriamo, invece, con un mondo – che è quello dello sport praticato – che ci “risveglia” da questa visione attraverso episodi di violenza, di diseducazione e di aggressività che nulla hanno a che vedere con il ruolo che lo sport dovrebbe avere e veicolare; una pratica nella quale ci si esprime attraver-so la trasgressione, il conflitto e il desiderio di vincere a qualsiasi prezzo. Purtroppo anche lo sport gio-vanile viene coinvolto in questa realtà.
A questo punto una domanda mi sorge spontanea: quali sono gli enti preposti all’educazione motoria e sportiva dei nostri figli? Chi ha la responsabilità dell’educazione sportiva dei nostri ragazzi? Lo sport è una questione di educazione (Scuola), di salute (Ministero della Salute) o di risultati (CONI)?
Perché, se si parla di educazione, qualcuno dovrà pur prendersi carico di questa mission che viene richiesta da più parti: non basta fare sport per crescere bene, occorre farlo nel modo corretto, nel rispetto dei modi e dei tempi della maturazione di ogni singolo atleta, nell’osservanza di un etica professionale propria di tutti gli educatori. E, soprattutto, è necessario creare una cultura allo sport: ma come?
Attraverso degli eccellenti educatori, capaci di caricare lo sport di un valore educativo che di per se non ha; attraverso dei modelli responsabili del loro ruolo perché chi in-segna, segna-dentro, lasciando una traccia indelebile nei corpi e nei cuori dei ragazzi; attraverso delle Istituzioni maggiormente attente alla funzione formativa ed educativa rispetto ad interessi politici ed economici.
Per concludere credo che chiunque “lavori” in ambito sportivo debba essere consapevole di avere una grande responsabilità nel portare avanti e promuovere una pratica sportiva capace di veicolare esperienze e contenuti formativi: la potenzialità educativa insita nella pratica sportiva altro non è che il frutto dei valori, delle motivazioni, delle aspettative, degli obiettivi di noi adulti che ci occupiamo di sport, dalle organizzazioni più complesse come CONI e Istituzione Scolastica a quelle più piccole inserite nel tessu-to sociale locale come Società e Associazioni Sportive.