Certo si tratta di dati descrittivi (non corretti per l’effetto degli altri tradizionali fattori che incidono sul reddito) calcolati sullo stock dei lavoratori e non sul flusso attuale per il quale la situazione è peggiorata. Studi econometrici recenti suggeriscono infatti che in Italia i rendimenti della scolarizzazione (l’aumento medio di salario generato, al netto di altri fattori, da un anno in più di istruzione) sono mediamente più bassi che negli altri paesi europei ed in declino nel corso degli ultimi anni. Un sistema produttivo fatto in larghissima parte di piccole imprese appare, almeno sino ad oggi, strutturalmente meno in grado di introdurre le innovazioni informatiche degli ultimi anni e decisamente meno predisposto a premiare l’istruzione.
Ma i problemi che turbano gli studenti sono di carattere più generale. La loro generazione non vede un futuro davanti a sé e questo non dipende dalla qualità dell’istruzione ma dalla difficoltà del mondo del lavoro di accogliere i nuovi arrivati e dare loro prospettive future stabili.
Negli anni ’80 l’Italia era il classico paese nel quale era difficile essere assunti ma anche difficile essere licenziati. Il paese con il più grosso conflitto tra insiders (coloro che ce l’hanno già fatta e spingono per trasformare il valore creato dal sistema produttivo in benefici per sè e non in opportunità di impiego di nuovi lavoratori) e gli outsiders (quelli che devono entrare nel mondo del lavoro). In Italia il tasso di disoccupati in cerca di primo impiego era decisamente più alto che nel resto d’Europa ma, una volta entrati, il posto era sicuro.
Con le riforme del lavoro degli ultimi anni e la creazione di una serie di contratti di lavoro flessibili la disoccupazione è calata significativamente, i tempi di attesa nella ricerca del primo lavoro sono calati, ma le prospettive dei giovani non sono migliorate. A parte le eccellenze, una quota molto significativa di essi ristagna per troppo tempo in un limbo di precarietà che non consente di progettare il futuro.
Tutto questo ha importanti conseguenze anche sulla capacità di risparmio che è stata una risorsa preziosa del nostro paese nel secondo dopoguerra. Grazie alla propensione al risparmio della generazione adulta l’Italia ha il più basso rapporto tra debito privato delle famiglie e reddito rispetto a Francia, Germania, Regno Unito e Stati Uniti e uno dei più alti rapporti tra ricchezza privata e reddito. Si tratta di risorse importanti e di un potenziale domanda di risparmio che può aiutare, ad esempio, il nostro sistema finanziario a superare meglio la crisi finanziaria globale dei nostri giorni.
Questa medesima virtù ha consentito sino ad oggi di assorbire la precarietà dei giovani attraverso trasferimenti intergenerazionali familiari. Se non troviamo però una soluzione ai problemi dei giovani le cartucce prima o poi finiranno.
Da questo punto di vista una proposta importante più volte avanzata in questi ultimi tempi è quella di offrire un unico contratto di lavoro a tempo indeterminato con garanzie crescenti e di uniformare i trattamenti di disoccupazione in modo tale da evitare che i licenziati delle grandi imprese abbiamo condizioni di privilegio rispetto ai licenziati delle piccole. Il contratto a garanzie crescenti (con costi crescenti di licenziamento per le grandi imprese all’aumentare dell’anzianità di servizio del dipendente) avrebbe un senso anche alla luce delle evidenze sul costo psicologico della precarietà che è crescente al crescere dell’età (il giovane appena entrato nel mercato del lavoro è disposto a ad accettarla, molto meno chi supera i quaranta e ha carichi familiari).
Se nelle linee generali una riforma di questo genere è urgente due sono le stelle polari che devono guidarla: la priorità del valore della persona (sforzandosi di salvaguardare la sua occupazione o la sua occupabilità favorendo formazione e reinserimento in caso di perdita di posto di lavoro) e l’urgenza della sua crescita formativa. Indagando non soltanto sulla recessione indotta dalla crisi finanziaria globale ma anche sul più grave declino strutturale del nostro paese scopriamo di essere all’ultimo posto in termini di scolarizzazione tra i principali paesi più industrializzati con un 13 percento appena di laureati sul totale della popolazione (ed una quota di cittadini che non hanno superato la licenza media pari a circa la metà della popolazione). Si tratta ovviamente di dati di stock che risentono della forte presenza di generazioni anziane a bassa scolarizzazione nella nostra popolazione (tra i giovani la quota di laureati supera il 20 percento). Eppure il ritardo è grave. Un risultato ormai consolidato negli studi sullo sviluppo economico è l’effetto del capitale umano sulla crescita dove quest’ultimo è misurato appunto come grado di scolarizzazione della popolazione. Non sono solo le eccellenze a fare la differenza, ma il livello medio di istruzione della popolazione che incide non solo direttamente sulla crescita ma anche sulla maturità politica, sulla cultura economica e persino sulla soddisfazione di vita e sulla salute dei cittadini (le persone più istruite, guadagnano di più, hanno una maggiore cultura sanitaria e capacità di curarsi, hanno una maggiore varietà di interessi che aumenta la loro capacità di godere di ciò che li circonda).
Le politiche per l’istruzione, la formazione permanente, l’occupazione e l’occupabilità sono dunque oggi le urgenze prioritarie che consentono attivamente di promuovere la dignità e il primato della persona nella società “del rischio”.