Al di là dei numeri, dall’indagine ISTAT emergono due elementi caratterizzanti il nostro Terzo settore: la tendenza del non profit a diventare fornitore per il pubblico nell’erogazione di servizi di utilità̀ generale e la capacità commerciale – intesa come propensione dei soggetti market oriented – che è maturata e cresciuta proprio nell’ultimo decennio. In questo senso la tradizionale dicotomia pubblico-privato è ormai già̀ superata dalla prassi e a poco a poco, la commistione tra questi due mondi, sta diventando sempre più cultura diffusa. Quello che viene definito "Terzo Settore" — e che racchiude in se le associazioni di volontariato, la cooperazione sociale, l’associazionismo, le fondazioni e le imprese sociali — è dunque uno dei comparti dell’economia maggiormente “in forma”, che non solo registra un forte trend di crescita, ma che va ricordato, ha retto molto bene i contraccolpi della recessione economica di cui ancora portiamo i segni, incrementando, al contempo, produzione e occupazione.
Le ristrettezze economiche della finanza pubblica hanno facilitato il passaggio da un sistema di welfare State – e dunque di uno Stato che interviene, in un’economia di mercato, per garantire l’assistenza e il benessere dei cittadini – come lo conosciamo oggi, a un sistema di welfare Society che, grazie al principio di sussidiarietà̀ orizzontale consente al Pubblico di “creare spazio” per una società civile organizzata e capace di arrivare e gestire, in maniera efficiente i servizi socio-educativi, assistenziali e di promozione dello sport e della cultura.
Accanto a questo rilevante aspetto va aggiunto che il fallimento della finanza speculativa, resosi evidente a seguito della crisi del 2008, ha accelerato ulteriormente il ripensamento dei modelli di sviluppo del mercato in favore di forme di imprenditoria sociale maggiormente responsabili ed etiche. La Commissione Europea stima intorno ai 14,5 milioni i dipendenti del Terzo Settore nel “vecchio continente” e ritiene l’imprenditorialità̀ sociale una delle leve cruciali per favorire l’uscita dalla crisi e avviarsi verso una crescita economica intelligente, sostenibile e inclusiva. L’economia sociale in questo senso svolge dunque un ruolo importante nella trasformazione e nell’evoluzione delle società̀ contemporanee, contribuendo sia allo sviluppo economico che alla coesione sociale.
La riforma mira dunque a valorizzare il Terzo Settore nei suoi tre elementi costitutivi: la finalità non lucrativa; gli scopi di utilità̀ generale; e un impatto sociale attento alla valorizzazione delle persone e alla promozione dei territori e delle comunità. La fotografia del settore fornitaci dall’ISTAT restituisce un panorama eterogeneo sia nelle forme delle realtà̀ operanti, sia nella disciplina che ne regola le attività̀. La forma prevalente è quella dell’associazione non riconosciuta, cioè̀ priva della personalità̀ giuridica, che copre il 66,7 % dei casi; segue la tipologia dell’associazione riconosciuta, con personalità̀ giuridica e autonomia patrimoniale, che riguarda invece il 22,7 per cento delle realtà̀. Più modesto l’apporto delle cooperative sociali (3,7 per cento) e delle fondazioni (2,1 per cento). A tale eterogeneità̀ nelle forme associative ha corrisposto finora una disciplina di riferimento spesso disorganica; uno degli obiettivi primari della Legge Delega è proprio quello di riordinare, semplificare e innovare – tramite la redazione di un Codice del Terzo Settore – una normativa frammentata, frutto della sedimentazione di leggi eterogenee, che si sono affiancate e sovrapposte ad una disciplina “codicistica” in parte desueta. Tale legislazione è stata definita a “canne d’organo” per sottolineare come alle diverse famiglie di attori e soggetti del Terzo settore sia stata dedicata nel tempo una legge ad che ha prodotto in molti casi sovrapposizioni e disfunzionalità.
Ma c’è di più̀. Oltre a essere una concreta applicazione del principio di sussidiarietà previsto dall’art.118 della Costituzione, la Legge delega riconosce la funzione imprenditoriale degli enti del Terzo Settore che operano nel campo dell’economia sociale, cercando, anche in questo caso, di superare la tradizionale separazione profit/non profit. La certezza infatti che lo sviluppo economico dipenda da un’unica forma di organizzazione delle attività economiche, basata su imprese che hanno come fine esclusivo la massimizzazione del profitto per gli azionisti e in cui la dimensione finanziaria risulta prevalente, è stata scossa dalla constatazione di una sempre maggiore instabilità dei sistemi economici e dagli effetti negativi della crescente disuguaglianza sulla realtà sociale.
E’ ormai evidenza comune, ribadita non solo da ricerche e studi ma anche da una ampia serie di documenti ufficiali della stessa Unione europea, che per raggiungere gli obiettivi di progresso che i Paesi Europei si sono prefissati, l’azione delle Istituzioni pubbliche e del private business da sola non basti. Un maggiore pluralismo, anche delle forme di impresa, è la chiave di un cambio di rotta, perché è necessaria la mobilitazione di nuove energie e risorse. A ciò si aggiunge l’esigenza di ripensare il concetto stesso di sviluppo a partire da un ruolo più importante della dimensione sociale, che si esprime in varie forme e secondo diverse sensibilità.
Il dibattito più recente, specie se osservato a livello europeo, mostra una pluralità di approcci. Si spazia dalla rilevanza attribuita all’innovazione relativa a temi di interesse sociale (social innovation, intesa dal punto di vista dell’oggetto), al ruolo degli stessi soggetti sociali nel produrre tale innovazione (social innovation, intesa dal punto di vista degli attori), fino ai criteri per valutarne l’impatto (social impact) e quindi per decidere la migliore allocazione delle risorse finanziarie sia pubbliche che soprattutto private (impact investing). Quel che però tutti questi approcci hanno in comune è l’importanza che viene riconosciuta alla produzione di beni e servizi orientati non solo a contenere e qualificare la spesa pubblica e a soddisfare bisogni, ma anche a rafforzare la qualità dei legami sociali, secondo principi di solidarietà e condivisione.
Entrando nel concreto sono molti i punti di rilievo della riforma, approvata in via definitiva lo scorso 25 maggio dalla Camera dopo un percorso legislativo durato oltre 2 anni. Nello specifico il testo prevede novità che spaziano dall’introduzione, per la prima volta, di una definizione giuridica di terzo settore, una sorta di “carta d’identità” che aiuta a configurare e tracciare il perimetro di questo variegato universo, fino all’istituzione di un Registro unico del terzo settore che va a sostituire i 33 diversi registri attualmente in vigore, facilitando la conoscibilità ed aumentando al contempo la trasparenza per tutti gli stakeholders di riferimento.
All’art. 5 vengono ridefiniti i Centri di servizio per il volontariato che, con il nuovo impianto, diventano una vera e propria infrastruttura di servizio e di aiuto per lo sviluppo di tante piccole realtà associative. In materia di impresa sociale, l’art. 6 si propone di rilanciare questa forma giuridica, già istituita a livello nazionale dal decreto legislativo 155 del 2006 e che in 10 anni di vigenza ha prodotto – lungo tutta la Penisola – quasi 800 imprese. Lo scarso utilizzo dell’impianto legislativo in essere ha posto la necessità, per il legislatore, di ripensare l’impresa sociale anche a fronte delle nuove sfide che il welfare si trova a dover fronteggiare ogni giorno; l’obiettivo è quello di rendere questa forma di impresa attrattiva per gli investitori senza snaturarne la missione non lucrativa. La nuova impresa sociale consentirà di avere un ritorno (vincolato) sull’investimento e rappresenterà una scelta per tutti coloro i quali ritengono che la massimizzazione del profitto e la remunerazione del capitale non debbano rappresentare necessariamente il principale obiettivo, piuttosto un mezzo utile per lo sviluppo, l’occupazione e l’innovazione sociale nel nostro paese.
Sostanziali le novità anche sul fronte del servizio civile che diventa “universale” – aperto cioè a tutti coloro i quali desiderino intraprendere questa esperienza – avrà una durata compresa tra gli 8 e i 12 mesi, potrà essere svolto – in parte, anche in un Paese dell’Unione Europea e verrà esteso anche ai cittadini comunitari ed extracomunitari regolarmente soggiornanti. L’obiettivo, sicuramente ambizioso e che rappresenta un importante investimento sul capitale sociale del Paese, è quello di arrivare entro il 2017 a 100.000 giovani in servizio, pari a circa un quinto di una generazione.
In tema di misure fiscali e di sostegno economico l’art. 9 della Delega introduce non solo una razionalizzazione e semplificazione dei regimi di deducibilità e detraibilità delle erogazioni liberali a favore degli Enti non profit ma anche il completamento della riforma dell’istituto del 5×1000. Il testo licenziato dalla Camera a maggio prevede, infine, la costituzione di due nuove realtà: il Consiglio nazionale del terzo settore, organismo di consultazione che vedrà presente al suo interno tutte le diverse “famiglie” del terzo settore e fungerà da “interlocutore” per il monitoraggio della legge e l’utilizzo delle risorse, e la Fondazione Italia Sociale, strumento che avrà lo scopo di sostenere la realizzazione e lo sviluppo di interventi innovativi da parte di Enti del terzo settore rivolti, in particolare, ai territori e ai soggetti più svantaggiati, svolgendo una funzione sussidiaria e non sostitutiva dell’intervento pubblico.
Per concludere, l’intento del Governo con questa riforma è stato dunque duplice: da un lato si è voluto procedere alla riorganizzazione della legislazione (primaria e secondaria) relativa al Terzo settore affinché questa fosse ispirata all’ultimo comma dell’art 118 della Costituzione; dall’altro si è cercato, al contempo, di meglio definire il ruolo delle Istituzioni nel rapporto con i soggetti e le organizzazioni di Terzo settore, che decidono liberamente di svolgere attività di interesse generale. Ora ci attende la fase di stesura dei decreti delegati che, dovrà tenere conto delle centinaia di “voci” ascoltate in questi due anni di consultazioni e confronti. Il fine è quello di riuscire a trasformare le istanze di tutti gli attori in una normativa concreta, utile ed efficace, che riesca a dare ulteriore spinta ad un universo vasto ed eterogeneo, senza l’apporto del quale, il nostro Paese risultrebbe indubbiamente più povero e meno coeso.