Negli ultimi decenni si è verificato un progressivo aumento della polarizzazione dei redditi e un approfondimento delle disuguaglianze sociali in molti Paesi. E questo è avvenuto anche in Italia dove esiste da sempre un forte divario territoriale tra le aree del Centro-Nord e quelle del Mezzogiorno. Per superare questa situazione il nodo da sciogliere rimane quello dell’assenza di leadership economiche e politiche capaci di assumersi il compito del cambiamento. Ad ogni livello

La prospettiva dell’ecologia integrale, che sostiene l’impianto della recente enciclica del Santo Padre Francesco sul tema dell’ambiente e della sua custodia sia in senso personale che politico, dilata la questione della tutela del patrimonio naturale e del paradigma, noto dal rapporto Brundtland in poi, come “sviluppo sostenibile” verso una profonda e diffusa integrazione con gli aspetti sociali, economici, culturali, educativi e istituzionali.

“Non possiamo fare a meno di riconoscere che un vero approccio ecologico diventa sempre un approccio sociale, che deve integrare la giustizia nelle discussioni sull’ambiente, per ascoltare tanto il grido della terra quanto il grido dei poveri (Laudato Si’, 49).

La questione ecologica è, prima di tutto, una questione che identifica il ruolo cruciale del modello (o dei modelli) di sviluppo, i cui fondamenti si radicano in una visione antropologica che tende a fare sintesi di tutte le dimensioni della vita della persona, ma anche nella natura relazionale di ogni autentico processo di sviluppo. È l’idea di sviluppo umano integrale, formulata dal beato Paolo VI e rilanciata da Benedetto XVI nella Caritas in Veritate, e che trova alcune formidabili connessioni con l’approccio della capabilities di Amartya Sen e Martha Nussbaum, ma anche con gli studi sullo sviluppo dell’economista eterodosso Albert. O. Hirschmann con alcuni degli studi più recenti sul ruolo del capitale umano e sociale sulla crescita e, last but non least, con il recupero ad opera di alcuni economisti italiani della tradizione italiana dell’economia civile come Stefano Zamagni, Leonardo Becchetti e Luigino Bruni.

La crescita è stata soprattutto intesa come espansione delle attività produttive, la sua relazione con i fattori soprattutto materiali che concorrono al processo che la genera costituisce un indicatore di valutazione del progresso (la produttività). La produttività e l’efficienza divengono la misura del successo della performance di sistema che premia ogni attività ed iniziativa economica, divenendo così ormai il parametro principale che ha misura la capacità dei sistemi territoriali di accedere e partecipare alla competizione globale. In un mondo talvolta “ridotto” ad un unico grande mercato, la preoccupazione dei soggetti economici (soprattutto grandi realtà imprenditoriali) è stata quella di allargare ed estendere gli spazi della libera iniziativa per il reperimento delle risorse (naturali, umane, finanziarie).

La finanziarizzazione dell’economia, attraverso la cartolarizzazione di molti titoli e strumenti finanziari, è stata l’esito certamente più problematico e drammatico, manifestatosi anche attraverso la recente crisi finanziaria mondiale nella quale siamo ancora immersi. Liberalizzazioni e privatizzazioni, accompagnate sovente da riduzioni degli interventi dei governi e degli stati nell’economia, sono state l’obiettivo della politica economica di molte economie sviluppate, confidando nelle automatiche capacità di aggiustamento a livello distributivo degli esiti in termini di remunerazione dei fattori originati direttamente dai processi produttivi. Il dato evidenziato negli ultimi venti anni da molte statistiche invece è stato quello di un progressivo aumento della polarizzazione dei redditi e di un approfondimento delle disuguaglianze sociali che ha prodotto l’incremento di vere e proprie aree di povertà in molte zone anche dei Paesi cosiddetti sviluppati.

È questo il caso dell’Italia, dove esiste da sempre un forte divario territoriale tra le aree del Centro-Nord e quelle del Mezzogiorno. In questi anni di forte crisi accompagnati da politiche fiscali e di bilancio preoccupate soprattutto dell’equilibrio contabile, le aree più vulnerabili del Paese hanno visto un aggravamento dei divari in termini di produttività espressi da una ancor più marcata “desertificazione produttiva”, da una grave crisi occupazionale il cui esito allarmante è stato una ripresa dei flussi migratori interni. L’urgenza di un nuovo modello di sviluppo che punti soprattutto sulla valorizzazione delle risorse a livello locale, riconoscendo gli assets territoriali come vettore di una nuova strategia alternativa rimane ancora una sfida tutt’altro che centrata anche dopo diversi cicli di politiche comunitarie di riequilibrio territoriali il cui obiettivo sostanziale è stato deviato verso il mantenimento dei livelli di spesa delle regioni.

Nel Mezzogiorno si stanno intrecciando in modo perverso le dinamiche strutturali dovute all’incapacità di individuare e perseguire modelli di sviluppo endogeno e produttivo con le dinamiche congiunturali che agiscono soprattutto in termini di riduzione, spesso solo quantitativa, della spesa pubblica (soprattutto di quella comunitaria) ma senza agire un reale riequilibrio nei settori di spesa e nei bilanci regionali e locali, alimentando paradossalmente il circolo vizioso tra spesa improduttiva, incapacità di attivazione dei fattori produttivi locali e selezione avversa dei progetti imprenditoriali e delle politiche pubbliche.

Il nodo principale consiste – a mio parere – proprio nell’assenza di leadership economiche e politiche capaci di assumere sino in fondo il compito del cambiamento ad ogni livello della società meridionale: imprenditori che sappiano investire in innovazione e ricerca mettendo a valore risorse naturali, culturali e professionali (penso soprattutto al fenomeno dei brain waste) e politici capaci di assumere una visione strategica di lungo periodo che sappia scommettere con coraggio e rigore sulla produzione di regole e istituzioni credibili.

L’area dello spreco è da sempre il brodo di coltura delle prassi di corruzione e illegalità, nutrite spesso dalla presenza di pubbliche amministrazioni “estrattive”, capaci di perpetrare rendite di posizione e abusi ad ogni livello della vita sociale, civile e politica. Gli attuali leaders economici e politici non riescono ad assumere una visione strategica e, anzi, rimangono prigionieri come in una morsa stretta da un lato da corruzione e spreco delle risorse pubbliche e dall’altro dal razionamento delle risorse finanziarie pubbliche e private.

Ci sono però alcuni segnali interessanti che provengono da alcuni settori della vita sociale che, combinando i valori della legalità con lo sviluppo, la coesione sociale con l’innovazione produttiva, la fatica di una sana cooperazione con la sfida di una vera competizione, affiorano come dei veri e propri laboratori territoriali di sviluppo in senso integrale.

Una nuova visione viene faticosamente elaborata dal basso attraverso questa serie interessante di sperimentazioni in diversi ambiti: dalla gestione dei beni comuni e dei beni confiscati di Libera all’agricoltura sociale dei Distretti Solidali e dei GAS, dal turismo culturale alle nuove modalità di gestione dei servizi e del welfare, dalle start-up innovative degli incubatori universitari ai gesti concreti del progetto Policoro.

Una nuova economia, civile e solidale, pulita e giovane, femminile ed inclusiva che però oggi ha bisogno di essere sostenuta attraverso strumenti di microcredito e micro finanza, da luoghi di progettazione partecipata che saldi economia e società a livello sociale e da una forte innovazione nelle politiche pubbliche.

Davide si scalda a bordo campo. Solo per adesso Golia sembra aver vinto.

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