Nella sessione sono stati presentati tre diversi paper. Il primo realizzato dall’OCSE sulla base della recente pubblicazione In It Together: Why Less Inequality Benefits All, in cui si argomenta su come una minore diseguaglianza potrebbe garantire benefici per l’intera economia. Il secondo del Fondo Monetario Internazionale dal titolo Fiscal Consolidation and Income Inequality dove si evidenzia come il risanamento di bilancio, per sua stessa natura, spesso amplifichi le disparità di reddito generando per altro un aumento della disoccupazione. Il terzo dell’University of Iceland, dedicato, invece al caso della Groenlandia dove il deterioramento del capitale sociale durante la crisi finanziaria ha generato effetti gravi sullo sviluppo del paese.
Al di là degli specifici contenuti, mentre i diversi relatori si alternavano sul palco, davanti ad un platea di studenti e laureati in economia, riflettevo su un aspetto assai singolare: alcuni dei principali istituti di ricerca del mondo, usando modelli econometrici anche molto sofisticati, dimostrano che le diseguaglianze inibiscono non solo processi crescita sociale ma anche economica. Rispolverando la mia formazione keynesiana, mi pareva che la tesi non fosse, poi, così originale ma, riflettendoci, ho capito che la “notizia” stava nel fatto che la relazione tra diseguaglianza e mancata crescita era ormai ampiamente dimostrata con tanto di analisi di impatto di tipo controfattuale. Ed allora perché a fronte dell’evidenza, tale assioma non si traduce in politiche di contrasto alla diseguaglianza, visto che l’obbiettivo condiviso è la crescita?
Prendiamo il tema del lavoro indicato da tutti i relatori come il principale fattore di disuguaglianza. Tutti nelle raccomandations riservate ai decisori, suggerivano di adottare misure urgenti per ridurre la disoccupazione (in particolare femminile e giovanile) attraverso programmi di politica attiva, qualificazione dei servizi per l’incontro tra domanda ed offerta di lavoro e formazione, puntando l’indice sulla mancanza di investimenti. Peccato che nella lungimirante Europa della Grexit stia avvenendo l’esatto contrario di quello che i prestigiosi istituti di ricerca ci raccomandano. Le spese per le politiche del lavoro sono in netto calo. Tra il 2009 ed il 2012 nel pieno della crisi, la spesa dei 28 paesi della UE per le politiche del lavoro è passata dal 2,3% del PIL all’1,8% e in particolare quella delle politiche attive è diminuita dall’0,52% allo 0,47% mentre le risorse per le politiche passive sono passate dall’1,38% all’1,2% del prodotto interno lordo.
Si taglia sui servizi, sulla formazione e sui sussidi in quasi tutti i paesi europei proprio nel momento di massima espansione della disoccupazione, mentre cioè diminuisce l’accesso all’istruzione universitaria ed aumenta la platea delle forze di lavoro potenziali (disoccupati più scoraggiati più sottooccupati), quel capitale umano inutilizzato che ormai rappresenta il vero esercito europeo. E meno male che abbiamo evidenze empiriche che dimostrano che le diseguaglianze frenano la crescita poiché viene da chiedersi cosa sarebbe potuto accadere se questa relazione non fosse stata dimostrata.
Per altro l’OCSE ci ricorda che “Rising non standard work can create job opportunities but also contributes to higher inequality” come a dire, attenti perché la flessibilità può creare posti di lavoro ma fa aumentare l’ineguaglianza. Ed anche qui c’è da ringraziare i ricercatori per l’ osservazione laddove i dati dimostrano che in Europa la platea dei lavoratori non standard è salita dal 13,6% del 2009 al 14% del 2014 superando i 30 milioni di lavoratori precari. Insomma pur circoscrivendo l’analisi alla “partecipazione al lavoro” quale principale fattore di disuguaglianza, gli sforzi dell’OCSE e del Fondo Monetario Internazionale sembrano servire a poco ed, anzi, pare che riescano a stimolare comportamenti politico istituzionali opposti.
Ed è soprattutto in Italia che la regola del contrappasso trova la sua più evidente e incontrovertibile dimostrazione. Il tema della “crescita” da noi è ormai inflazionato ma lo è molto meno quello della riduzione della diseguaglianza! In questi anni di crisi siamo stati capaci di ridurre quasi tutte le spese sociali: dai fondi per contrastare la povertà alla spesa per i servizi per il lavoro (che già era la più bassa d’Europa), dalle politiche attive alla formazione professionale. E, per un paese che ha uno dei tassi di occupazione femminile più bassi d’Europa ed il record europeo dei giovani che non studiano e non lavorano, significa rinunciare a contrastare la diseguaglianza. Un capolavoro politico che oggi sappiamo potrebbe aver minato alla base qualunque prospettiva di “crescita” sociale ed economica. Si dirà che le casse dello Stato non permettevano e non permettono voli pindarici.
Ma se assumiamo che la relazione “meno disuguaglianza uguale più crescita” sia vera non possiamo non immaginare interventi che puntino effettivamente ad una riduzione delle diseguaglianze aumentando la partecipazione al lavoro e contrastando le povertà. Come? Valorizzando tutte le risorse disponibili, in particolare quelle provenienti dai Fondi strutturali ma anche riducendo gli sprechi e soprattutto abbandonando definitivamente l’idea delle cosiddette “riforme a costo zero”.
Anche il Jobs Act, che pure introduce tutta una serie di importanti novità nel contrasto alle diseguaglianze (ampliamento della platea di beneficiari ed aumento della durata della indennità di disoccupazione e sperimentazione di un assegno per i disoccupati indigenti) rischia di restare sulla carta o peggio ancora di risultare insostenibile se non accompagnato da misure adeguate di riattivazione per quella platea di oltre tre milioni di disoccupati e giovani oggi esclusi da ogni processo di emancipazione sociale. Per farlo occorrono investimenti e non si può fare senza aumentare la spesa sociale. A costo zero c’è solo l’aumento delle diseguaglianze e più disuguaglianza – è dimostrato – significa meno crescita.