Costruire l’immagine di un’agricoltura “tappabuchi” o “crocerossina” di un capitalismo non più in grado di generare sviluppo e occupazione – l’immagine, cioè, di un settore che accoglie coloro che non trovano impiego altrove e si adattano al lavoro agricolo nonostante i redditi relativamente bassi e le difficoltà ad assumere i rischi d’impresa – è un’operazione che non fa percepire l’innovazione sociale che si è realizzata. Appare più un tentativo di creare un nuovo stereotipo ancor più opprimente di quelli che in passato hanno gravato sull’agricoltura. Un pregiudizio che si collega – dilatandolo – a quello prefigurato da alcuni opinion leader quando hanno incominciato a ritagliare e delimitare nelle campagne un’area di piccole e piccolissime aziende da tenere separate dal resto dell’economia e della società, “salvaguardarle” dalle contaminazioni culturali di altri soggetti e di altri settori, contrapporle alla scienza e alla ricerca scientifica, eventualmente proteggerle con politiche ad hoc. Un’area dorata a cui aggrapparsi per affrontare meglio i rischi della contemporaneità. Se dovesse passare questa idea, ci troveremmo dinanzi ad un nuovo e più subdolo tentativo di dominazione culturale delle campagne da parte di gruppi che, a discapito dell’interesse generale, fanno prevalere poderosi interessi particolaristici.
La chiave di lettura che dovremmo utilizzare per comprendere la mutata reputazione di cui gode l’agricoltura italiana rispetto al passato è un’altra: dopo un lungo processo di progressiva sovrapposizione socio-economica e culturale, città e campagne si presentano senza più discontinuità rilevanti e, nel contempo, le componenti rurali della società civile esprimono modelli innovativi per l’insieme delle comunità senza più rappresentare un mondo a parte non solo nella realtà, ma anche nell’immaginario collettivo e nella costruzione di nuove identità. In sostanza acquista credito nell’opinione pubblica l’idea che l’innovazione sociale prodottasi nelle campagne negli ultimi 30-35 anni può costituire un importante correttivo di civiltà.
Questa reinvenzione della ruralità si manifesta mediante la rigenerazione di un’agricoltura relazionale e di territorio, la fioritura di una leva di neo-agricoltori il cui obiettivo non è produrre cibo in sé, ma produrlo in un certo modo per ottenere beni pubblici capaci di soddisfare bisogni collettivi. Si opera una sorta di capovolgimento dei mezzi in fini, per ristabilire un ordine di priorità che si era smarrito con la modernizzazione agricola: è l’uomo coi suoi bisogni e le sue aspirazioni più profonde e sono i beni pubblici, relazionali e ambientali, i fini dell’attività economica, mentre il processo produttivo, il prodotto e la sua scambiabilità sono soltanto i mezzi per conseguirli. In tale solco, già alla fine degli anni ‘70 s’inseriscono le iniziative pioneristiche nell’ambito dell’agricoltura sociale.
La crisi sta, invece, svolgendo una salutare funzione demistificante di taluni convincimenti fallaci, come quella di ritenere che la spersonalizzazione dei rapporti economici sia un elemento di efficienza e non invece il portato di un’idea riduttiva e avvilente della persona. Tornano così ad essere ritenuti importanti i beni relazionali e il capitale sociale nei processi di sviluppo, cioè quei valori su cui la nuova ruralità ha inteso rifondare la funzione dell’agricoltura come generatrice di comunità. Ed è precisamente a questo punto che le antiche separatezze socio-culturali ed economiche, considerate fino a poco tempo fa irriducibili e necessarie, e i vari pregiudizi, che dipingevano le campagne come entità restie all’innovazione, appaiono ormai definitivamente crollati.
L’agricoltura non è, dunque, il ripiego di un capitalismo in crisi: una sorta di accampamento di fortuna in attesa di tornare quanto prima ad abitare nelle case dissestate. Così fu intesa nell’America di Roosevelt immediatamente dopo la grande crisi del ’29, all’insegna della parola d’ordine Back to the Land. Ma ben presto a quei programmi infuocati subentrarono nuovi e più intensi processi d’industrializzazione e urbanizzazione. Oggi corriamo un rischio analogo e lo corriamo come sistema Paese e come Unione Europea. Negli Stati Uniti si è già avviata una nuova fase di sviluppo industriale fondato su internet e sulla robotica e, naturalmente, su una trasformazione totale del lavoro sia dipendente che imprenditoriale e su forme totalmente nuove dell’abitare. Noi invece non parliamo più di sviluppo industriale come se la fine del fordismo abbia significato la fine dell’industria e non parliamo più dell’abitare come se l’unica possibilità che abbiamo, dopo la cementificazione selvaggia delle aree agricole, sia solo quella di adattarci a vivere nel “già costruito”.
La rivoluzione tecnologica in atto può aprire una nuova prospettiva allo sviluppo dei territori e dei mercati internazionali in cui l’agricoltura e l’agroalimentare possono diventare elementi qualificanti e partecipare attivamente, con il proprio capitale umano e sociale e in relazione con l’insieme dei sistemi produttivi locali, al salto tecnologico che si sta realizzando. Si tratta di invertire l’ordine di priorità tra sviluppo e coesione sociale, anticipando la seconda come premessa del primo per civilizzarlo. E di ridisegnare completamente il rapporto tra territori e mercati internazionali mediante politiche industriali per l’internazionalizzazione fondate sul “fare squadra” in Italia e all’estero, sulla nostra capacità – da sempre dimostrata nella nostra storia – di favorire processi di interscambio culturale prima ancora che commerciale, sulla costruzione di reti diffuse e collaborative tra pubblico e privato (a partire dai territori con più antiche tradizioni di sviluppo locale) e sul rendiconto alle comunità territoriali dei risultati conseguiti.
L’attenzione che l’opinione pubblica sta rivolgendo all’agricoltura andrebbe, pertanto, esaminata guardando ad un arco temporale di lungo periodo per coglierne fino in fondo le cause e i caratteri. E andrebbe vista come un’occasione per ripensare complessivamente lo sviluppo.