L’abitudine a questa locuzione deriva almeno in parte dal fatto che il Ministero della Pubblica Istruzione andò a sostituire dal 1944 il Ministero dell’Educazione Nazionale, il cui nome si legava alla memoria del regime fascista e richiamava un’intenzionalità pedagogica sicuramente compromessa. Un regime democratico si riconosceva piuttosto nella cura dell’istruzione (un concetto essenzialmente strumentale) e l’aggettivo ‘pubblica’ rafforzava la svolta.
Da quando il Ministero ha mutato il suo nome eliminando l’aggettivo e mettendo insieme istruzione, università e ricerca, qualcuno ha lamentato la scomparsa di un titolo al quale evidentemente si intendeva attribuire un forte valore simbolico. In realtà, per chi crede che l’istruzione sia sempre e comunque pubblica non cambia nulla. Se ci si lamenta, vuol dire che il senso attribuito alle parole è diverso.
Di pubblico si può parlare in almeno due modi: da una parte si può guardare a chi c’è davanti, al destinatario del servizio (pubblico) di istruzione; dall’altra si può guardare a chi c’è dietro, a chi ne è il proprietario. Sono legittime entrambe le interpretazioni, ma nel nostro caso l’alternativa può rivelare intenzioni e significati inespressi.
Se guardiamo alla finalità dell’istruzione è innegabile che essa abbia un’intrinseca rilevanza pubblica. Saper leggere, scrivere e far di conto non è solo un bagaglio culturale personale (cioè privato) ma una potenziale ricchezza (un bene) per l’intera società, quanto meno perché la presenza di persone poco istruite costituisce un problema ed un peso per tutta la collettività. Non è allora senza motivo che la Costituzione (art. 34) abbia reso obbligatoria l’istruzione (almeno fino a una certa età). Ciò che conta in questo processo è unicamente il raggiungimento della finalità: mettere ogni cittadino in condizione di esprimere se stesso e di partecipare alla vita sociale. Alcuni contenuti dell’istruzione hanno un rilievo pubblico perché indispensabili alla vita sociale, altri possono essere solo il risultato di un interesse personale: è socialmente necessario che si sappia leggere e scrivere, ma un corso di scrittura creativa soddisfa solo una privata, seppur legittima, aspirazione.
Se invece volgiamo lo sguardo all’indietro, cercando di distinguere tra pubblico e privato in base a chi eroga il servizio, sembra a qualcuno che solo un soggetto giuridico pubblico (Stato o, al più, ente locale) possa garantire la bontà di un servizio che potrebbe non essere più valido o legittimo se sottoposto alle intenzioni (o agli interessi) di un soggetto privato. Rispetto al “proprietario” del servizio di istruzione di epoca fascista (che si comportava come un soggetto privato, sottoponendo il sistema di istruzione ad interessi di parte) sembra giusto rivendicare la “pubblicità” della scuola attribuendola a un soggetto che intenda perseguire interessi pubblici, ma questo non dipende solo dallo stato giuridico del gestore di una scuola.
L’insistenza sulla scuola pubblica rischia di essere una pedanteria inutile, volta di fatto solo a creare (polemicamente) una differenza tra scuole statali e scuole non statali, riservando solo alle prime l’attenzione (e la legittimità). Quella insistenza denuncia in realtà una concezione proprietaria della scuola, che si definisce più per la natura di chi la gestisce (chi c’è dietro) che per la natura del servizio che offre (a chi c’è davanti).
Chi ricorre a quella espressione dovrebbe essere almeno consapevole di usare le parole in maniera equivoca, sfruttando il significato universale di ciò che è pubblico per identificare solo una parte del servizio scolastico (quello a gestione statale), ma la distinzione finisce per cancellare la funzione pubblica che il servizio di istruzione dovrebbe avere.