Ci sono buone ragioni per sottolineare l’importanza di una scuola più prossima alla realtà del lavoro e di una più spiccata valorizzazione della formazione scientifica e tecnologica. Ma c’è da dubitare che ciò basti a riacciuffare il filo dell’istruzione e dell’educazione come “bene comune”. E quindi a giustificare gli investimenti necessari a un’istruzione di qualità e di buon livello per tutti (e anche, come si dovrebbe, per “tutto il corso della vita”).
Sebbene sia essenziale, tanto più a fronte della tradizione scolastica italiana, restituire il giusto valore al rapporto tra istruzione e vita professionale – e per questa via a quello tra sviluppo del sapere e sviluppo economico – è evidente che “istruzione pubblica” è una nozione che va molto oltre. Non solo oltre l’antica discussione sull’identificazione o meno tra “statale” e “pubblico” (nonché sui processi di privatizzazione corporativa o familistica che insidiano il profilo pubblico del sistema educativo), ma anche oltre le tendenze attuali a dare di quella nozione una lettura prevalentemente economicistica o utilitaristica.
Colgono nel segno le riflessioni di quanti, in questo mainstreaming, vedono il riflesso di un postmoderno connotato dalla fine delle “grandi narrazioni” che sempre si sono interrogate sul rapporto tra educazione e società: e perciò connotato anche dall’oblio di un pensiero pedagogico come quello di
John Dewey che poteva scrivere di educazione solo scrivendo anche di
democrazia. Acute osservazioni in questo senso vengono da
Francois Lyotard nel suo libro
La condizione postmoderna. Rapporto sul sapere, (2007) che analizza gli effetti, soprattutto in termini di contrazione della spesa pubblica per l’istruzione, del progressivo appannarsi degli approcci teorici che davano valore al sapere e all’educazione come una delle vie fondamentali per il miglioramento della società.
Non mancano in verità, nel dibattito nazionale e internazionale, posizioni anche molto critiche alle derive economiciste o utilitariste di tanta parte delle politiche attuali dell’istruzione, che però rischiano spesso di scivolare, come in alcuni
pamphlet di
Paola Mastrocola, nel rimpianto della scuola di altri tempi: quella in cui non c’erano dubbi sulla supremazia assoluta dei saperi umanistici, con tutto quello che ne deriva, da un lato, di svalorizzazione dei saperi tecnologici e scientifici, dall’altro di disconoscimento della pluralità delle intelligenze, delle aspettative, dei bisogni formativi delle persone.
Nessun rischio di questo tipo, invece, nel testo Non per profitto (2013) della filosofa statunitense Martha Nussbaum che, grazie anche alla fitta collaborazione culturale con l’economista indiano Amartya Sen, presenta un taglio pedagogico del tutto esente da suggestioni passatiste o da nostalgie per la scuola di élite. Al centro della proposta, che dà per scontata l’inclusività della scuola e la definizione dell’educazione come bene comune, ci sono “le tre capacità senza cui una democrazia non può durare a lungo”. E senza cui è impossibile perseguire un mondo meno intossicato dall’aumento delle diseguaglianze, dai conflitti e dai fanatismi, dai danni ambientali determinati da interessi economici.
Un mondo che a differenza di un tempo non può che essere globale e che deve imparare ad essere interculturale. In questo contesto secondo la Nussbaum la scuola deve promuovere “
la capacità di ognuno di autoesaminarsi e di autochiarirsi favorendo una cultura pubblica deliberativa più riflessiva in cui si sia tutti meno influenzati di quanto siamo ora dagli altri, dall’autorità, dalle mode; la capacità di pensare come cittadini del mondo, con una conoscenza adeguata della sua storia, dell’economia mondiale, delle principali religioni e culture mondiali; [la capacità di immedesimarsi]
la disponibilità e gli strumenti culturali per immedesimarsi con immaginazione simpatetica nelle posizioni degli altri”. Fini alti e complessi, a cui indirizzare tutte le diverse componenti del sapere umano, fuori e oltre le gerarchizzazioni disciplinari tradizionali. E un’educazione orientata a formare “cittadini responsabili, autonomi, riflessivi, autocritici”, sconfiggendo la comoda passività trasmessa da una scuola che “fa restare tutti minorenni”.
Può bastare tutto ciò a restituire credibilità alla nozione di istruzione pubblica come bene comune? A liberare i sistemi educativi dalla sempre più diffusa convinzione che essi debbano servire soprattutto alla realizzazione delle aspettative individuali, delle famiglie, delle imprese?