Il Ttip è l’acronimo di Transatlantic trade and investment partnership. Così è stato battezzato un accordo tra gli Usa e l’Ue in tema di commercio e investimenti. Il pezzo iniziale del nostro direttore, Leonardo Becchetti, che scrive a quattro mani con l’amico Gabriele Mandolesi, spiega tutto, con brillante sintesi. Dunque si tratta di un trattato. E un trattato si stipula quando le parti in causa ritengono vantaggioso accordarsi. Le parti in causa, i negoziatori, nel nostro caso rappresentano milioni di cittadini e di imprese: insomma gli stakeholder sono molti e hanno – per certi aspetti – interessi anche divergenti.
Pertanto ci parrebbe ragionevole pensare che i negoziatori decideranno di firmare quando avranno trovato una giusta composizione dei diversi interessi in gioco. Qui ci verrebbe in aiuto il principio che dà nome al nostro umile sito web, il bene comune. Certamente sarà così se si aprirà un pubblico dibattito, dove i diversi think tank – da quelli più popolari, come le università, a quelli più “interessati”, come alcuni centri studi – potranno esibire i loro elementi previsionali e consentire ai politici di prendere una decisione nell’interesse di tutti. Ma, attualmente, le informazioni sono ancora poche e riservate a pochissimi eletti, tra cui – in modo piuttosto limitato, basti leggere il pezzo di Monica Di Sisto – gli Stati nazionali.
Se questo è l’inizio dell’avventura, allora chissà quando si accenderanno le controversie! Monica afferma che questo trattato è – di fatto – una riforma costituzionale sotto mentite spoglie. Effettivamente dagli elementi da lei prodotti, la conclusione non può essere che questa. La materia commerciale è tecnicamente assai complessa suggerirebbe al buon senso di ricorrere ai tecnici. Ma dietro una complessità tecnica si nasconde comunque una scelta: per questo ci si dovrebbe affidare alla politica. In questo caso gli esperti, i tecnici, rischiano di sostituire i politici. Ma questo è un problema: perché il tecnico vede il vulnus giuridico e procede alla riparazione, quando invece il politico porrebbe una questione generale aprendo un dibattito pubblico. Beninteso, una politica che sappia fare il suo mestiere e non gli interessi di quelli “più uguali degli altri”.
Vedremo come va. Non vogliamo usare questo inizio sbagliato da parte dei negoziatori per fare dell’ideologia anti-mercatista a buon… mercato. Ma a noi interessa sapere se l’applicazione di queste norme favorirà le parti più deboli del mercato, ovvero i lavoratori e le famiglie più popolari, le piccole e le medie imprese, le comunità e le eccellenze territoriali, la qualità e le innovazioni sociali. Ci interessa sapere se l’applicazione di queste norme creerà le condizioni per una maggiore tutela sociale o se rafforzerà l’insicurezza che stiamo vivendo. Ci interessa anche sapere quali effetti (ragionevoli) potrà avere l’applicazione di queste norme rispetto alla produzione nel resto del mondo, quali effetti politici potrà determinare, dato che a trattare ci sono dei colossi del mondo contemporaneo. Tutte queste decisioni, sulla base di attente valutazioni tecniche, competono ai politici. Insomma vorremmo che la mano che firma fosse guidata da un cervello che ha un cuore sociale. I dati prodotti da Osea Giuntella permettono di acquisire anche qualche elemento positivo, per esempio in merito ai salari, anche se il quadro che si delinea, e qui Osea cita l’Ofse, sembra sbilanciato a favore delle multinazionali. Per questo abbiamo scelto – in questo numero – un titolo più provocatorio.
Giuseppe De Marzo sostiene come non sia affatto corretto utilizzare la parola libero mercato per descrivere l’attuale globalizzazione economica. Sarebbe un errore, visto che di “libero” nel mercato globale c’è ben poco. È in questa logica che si iscrive il TTIP. Una logica che ha prodotto conseguenze devastanti: l’intreccio delle crisi che mordono le vite di miliardi di esseri umani non è mai stato così asfissiante.
Desta preccupazione, come osserva Stefano Tassinari, il fatto che si possa puntare a una concorrenza che mette a rischio i criteri di qualità della produzione di beni e servizi, nonché la dignità del lavoro, a favore di una logica che punta a costi sempre più bassi tutelando gli interessi delle multinazionali. Tutto ciò mentre proprio una economia che cerca nell’aumento della qualità il proprio valore aggiunto viene indicata da più parti come esempio per creare sviluppo, oltre a rappresentare spesso un fattore vincente del nostro Made in Italy.
La vecchia teoria economica suggeriva che tanti piccoli operatori, in un mercato libero, avrebbero prodotto un equilibrio per tutti, come se una mano invisibile guidasse l’opera. Qui ci pare invece che la mano sia molto visibile e rischi di produrre squilibrio e un mercato meno libero.