Che sia in atto e in gran parte già realizzata nel Bel Paese una grande mutazione delle forme del politico mi pare, oramai da più di un ventennio, un fatto incontrovertibile. I vecchi partiti non ci sono più e il più vecchio è la Lega che fu di Umberto Bossi e adesso è di Matteo Salvini, avendo cambiato un’altra volta linea senza cambiare i toni. Vi ricordate del federalismo e della secessione? Al pratone di Pontida si è sostituito il cipiglio d’importazione e nazionalista di Marine Le Pen, ultima reincarnazione al femminile di un incrocio tra Obelix e un prefetto napoleonico.
Anche nel resto del panorama italiano i cantieri sono tutti da tempo aperti e abbondantemente coperti di macerie. Perché? Il nostro Paese è l’unico al mondo ad avere azzerato tutti partiti di massa che hanno attraversato il secondo dopoguerra. Non c’è più la Dc, non c’è più il Pci, non c’è più il Psi, non c’è più neppure l’Msi rilavato in An con l’acqua di Fiuggi. Da sinistra a destra passando per il centro. Non è accaduto così in nessun altro paese d’Europa dove, come in Germania con i Piraten, compaiano e spariscono nuove formazioni meno consistenti rispetto ai grandi partiti della tradizione postbellica.
A far data dalla caduta del muro di Berlino dell’Ottantanove questa appare la condizione italiana rispetto a un quadro internazionale nel quale non cessiamo di essere inseriti, non soltanto economicamente. Perfino i belgi, che hanno superato ogni record per l’assenza di un governo in carica, sono poi ritornati alla formula della tradizione.
E se ho scelto come riferimento comune la caduta del muro di Berlino è perché quello appare lo spartiacque tra la stagione della guerra fredda e quella successiva della turboglobalizzazione, che non è sfociata nel multipolarismo, ma in un difficile stallo non-si-sa-che. Sporto idealmente sulle macerie del Muro papa Giovanni Paolo II aveva affermato: “E’ crollato più grande esperimento di ingegneria umana che la storia ricordi”. Papa Francesco, oltre a invitare a ripartire dalle periferie esistenziali di questo mondo, ha recentemente osservato che è incominciata “la terza guerra mondiale”, ancorché a pezzi e capitoli.
Uno sguardo e uno schizzo internazionale possono almeno aiutarci a non porre dei problemi tutti ripiegati sul nostro abituale provincialismo. C’è una difficoltà complessiva della democrazia, quella che deve avere spinto Amartya Sen a scrivere i suoi ultimi libri occupandosi molto di democrazia oltre che di economia. La difficoltà può essere concentrata nel binomio governabilità-democrazia.
Governabilità è parola mutuata dal lessico della Trilateral Commission, che pose il tema in un rapporto tenuto a Kyoto nel maggio 1975. Quanto al nostro Paese venne addirittura coniato in quell’occasione il termine di “anomalia del caso italiano”. La proposta della Commissione Trilaterale è condensata in un libro – La crisi della democrazia – che fu pubblicato in italiano con la prefazione di Gianni Agnelli.
L’origine del binomio governabilità-democrazia può apparire sospetta, ma il tema non ha cessato di accompagnarci e di reclamare una soluzione. Il quadro è inevitabilmente globale e si potrebbe forse ipotizzare che ancora una volta è tornato in campo l’anticipo italiano… Dunque per non essere né superficiali né strabici nella valutazione delle proposte in campo sarà bene tentare alcune operazioni necessarie.
Prima. Dotarci di un punto di vista dal quale guardare. Qui funzionano tanti ingredienti. L’attesa del nuovo, i residui del reducismo, l’idem sentire o quel che resta dei gruppi di appartenenza. Ognuno e ogni associazione deve cercare di essere sincera con se stessa e capire da dove guardare. Entrano in campo le nostre storie, personali e di gruppo. Con lo sforzo di essere chiari perché la ricostruzione di una posizione confusa rende confuso lo sguardo.
Serve la nostra storia perché ogni storia discende – come ci hanno insegnato Le Goff e Pietro Scoppola – dalle domande che le rivolgi: anche quelle delle Acli. Insomma, ci vuole un punto di vista, ed è meglio averne uno sbagliato che nessuno. Ovviamente le due osservazioni che seguono discendono dal punto di vista che in questi ultimi anni e mesi ho cercato di faticosamente costruire.
Prima osservazione. Siamo entrati nella stagione dei populismi, non solo in Italia. Il populismo cresce sulle metamorfosi e sulla dissoluzione dei partiti di massa, ma trae linfa e velocità dall’assetto dei poteri globali. I partiti di massa in quanto tali non torneranno più. Troviamo ancora in giro il richiamo della foresta, ma le foreste sono azzerate, per tutti. Al massimo puoi recuperare qualche albero d’alto fusto per nuove costruzioni da decidere.
Il populismo lascia aperti e in corso numerosi problemi relativi alla partecipazione, alla condivisione delle decisioni, alle derive plebiscitarie, al ruolo degli enti intermedi, alla fine delle ideologie e soprattutto all’esercizio della critica, al proliferare dei partiti personali e al costituirsi delle persone in partito. Ma è con questo tessuto che dobbiamo fare i conti nell’anomalia italiana, e non con il rimpianto di una Repubblica “fondata sui partiti”, che fu espressione più volte usata da Palmiro Togliatti e condivisa da non pochi leaders democristiani.
Il linguaggio del populismo si va progressivamente sostituendo alla propaganda la logica pubblicitaria. In essa è sempre l’offerta che crea la domanda e il “piazzista” che offre il prodotto deve presentarsi senza dubbi: l’auto che vi propongo non ha difetti, nell’accelerazione come nella frenata, e se non vi basta vi prendete in sovrappiù la bionda dello spot. Il termine “piazzista” come l’ho usato non è politicamente innocente e si trova nell’ultimo capitolo del saggio Sulla rivoluzione di Hannah Arendt. Scriveva a rinforzo la Arendt nel 1963 che il guaio è che “la politica è diventata una professione e una carriera, e che quindi l’élite viene scelta in base a norme e criteri che sono in se stessi profondamente impolitici”.
Un’ulteriore osservazione dice che il populista non ha generalmente chiaro e definito il traguardo: dipende dalle circostanze e dai vincoli della congiuntura. Ma più importante di tutte è la circostanza che i populismi – tutti – nascono e si acconciano all’antropologia di un popolo più che alle forme vigenti del politico.
È il discorso che da ultimo va proponendo Salvatore Natoli. E che ha un precedente storico nel Leopardi del 1824: gli italiani mancano di dimensione interiore e di classe dirigente. E mi piace ricordare che, dopo il film di Martone, Leopardi va riscoperto come uno dei più grandi pensatori politici del Bel Paese.
Nel populismo, pare a me, si radunano tutte queste variabili. Sarà bene tenerne conto e lavorarci politicamente, perché tutte le proposte e i tentativi in campo sono chiamati a misurarsi, attraversandolo o riparandosene, con il vento populista, che non può essere fermato con le mani.
Se l’unica proposta partitica parzialmente strutturata sul campo italiano è quella di Matteo Renzi, anche le altre, a partire dai rispettivi background e dalle proprie macerie, dovranno attrezzarsi. Tenendo conto del fatto che prima viene l’antropologia di un popolo e poi seguono le forme del politico: in Italia, in Francia, in Ungheria (ahimè) ed anche nel Regno Unito.
Da dove prendere il capo della corda? Personalmente diffido del sondaggismo, del plebiscitarismo e di tutte le diavolerie che analogicamente li accompagnano. E in effetti preferisco giurare sul Decamerone che sui loro esiti. Me lo ha insegnato quel maledetto positivista di Wilfredo Pareto.
Ed eccomi all’ultima osservazione consentitami dallo spazio. Messe così le cose il problema non è destra o sinistra, ma riguarda i livelli di democrazia. Matteo Renzi quando in mezza giornata decide l’ingresso europeo del Pd italiano nell’area socialista non taglia nessun nodo gordiano: ha la vista acuta di chi legge che il nodo non c’è più.
Ad essere un poco pignoli, il nodo vero è quello già indicato e riguarda la democrazia e più decisamente il rapporto tra governabilità e democrazia: un rapporto inquietato dalla troppo evidente diversità dei tempi di decisione tra economia e politica democratica. Per non parlare dell’avida dissennatezza della finanza, non circoscritta ai soli tempi.
Eccolo dunque riapparire il problema: il vero gap è tra la governabilità e la democrazia, considerata troppo lenta e discutidora. Un ombrello a guardar bene sotto il quale si riparano tutte le inerzie corporative di destra e sinistra, burocratiche e sindacali incluse.
E a questo punto mi pare bene espormi con la mia ipotesi di lavoro: mi parrebbe meglio rimettere mano alle forme del politico piuttosto che picconare la Costituzione (oltre il bicameralismo perfetto, e poi basta) e pasticciare con i sistemi elettorali (oltretutto il mattarellum ha dimostrato di funzionare) ed istituzionali. Il rischio altrimenti è quello di produrre porcellum condivisi.
Rispunta il tema dei partiti. Chiamiamoli “motociclismo” per non confondere i nomi e le cose. Creiamo nuovi canali di partecipazione, cultura politica, selezione della classe dirigente: tenendo conto dei dati strutturali e dello “spirito del tempo” sovrastrutturale, che merita insieme di essere tenuto in conto e criticato. Insomma, dei canali di partecipazione tra i luoghi istituzionali e il civile vanno democraticamente ricostruiti. Lavorando sui soggetti della politica piuttosto che rimettendo mano ogni volta alle regole del gioco.
Guardate gli americani, dai quali abbiamo importato le primarie. Hanno una Costituzione vecchia di più di due secoli, i presidenti continuano a giurare sulla Bibbia, votano il martedì successivo al primo lunedì di novembre, grandini e tiri vento o anche se è in arrivo uno dei tifoni dal Golfo del Messico. Mi chiedo se la democrazia non governi grazie anche a qualche arcaismo e a qualche lentezza. Certamente i “ritardi” della loro Costituzione non impediscono agli americani di investire, intraprendere e fare molto business. Anche questo può essere un utile punto di vista dal quale guardare a queste nevrotiche cose italiane.