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Per risvegliare una cultura della pace.
Dov’è finita la pace? È forse stata cacciata dal perimetro dei nostri ragionamenti? Riposa in pace, mentre noi affrontiamo la dura realtà, dirà qualcuno. Sì, perché in questi mesi di guerra continua, di violenze filmate e derivate le voci che hanno detto pace sono poche. Più o meno le solite. Dire pace sembra quasi un anelito ormai talmente idealista da evaporare assieme al primo colpo sparato.

Dov’è finita la pace? È forse stata cacciata dal perimetro dei nostri ragionamenti? Riposa in pace, mentre noi affrontiamo la dura realtà, dirà qualcuno. Sì, perché in questi mesi di guerra continua, di violenze filmate e derivate le voci che hanno detto pace sono poche. Più o meno le solite. Dire pace sembra quasi un anelito ormai talmente idealista da evaporare assieme al primo colpo sparato. Certo, le violenze dell’Isis, i terroristi palestinesi, la protezione delle minoranze russofone, la questione curda: si arriva a certi punti in cui magari la situazione è così grave e richiede almeno una protezione delle potenziali vittime e allora occorrerà anche operare. Ma proprio in questo modo? E intanto, non può forse partire un’azione politica che costruisca una realistica e possibile pace? La dottrina della guerra giusta non c’è più: tutt’al più – dice il Papa – un legittimo diritto alla difesa. Viviamo – afferma – con fulminante intuito – una terza guerra mondiale a pezzi, a conflitti locali eppure tra loro collegati.

Se è così occorre sapere ridire pace. Non in modo ripetuto o irenico o ideologico. Occorre ridire pace attraverso il perseguimento di un ordine mondiale. Occorre ridire pace tornando a parlare di disarmo. Occorre ridire pace criticando un modello economico che uccide. Ma occorre anche ridire pace creando una nuova cultura della pace, che coinvolga i giovani, i lavoratori, le famiglie, i capi di Stato. Non basta una cultura di pace per chi è più sensibile: occorre una cultura di pace anche per chi la sensibilità deve ancora costruirla. I movimenti pacifisti non riescono più a mobilitare il popolo. È per questo che dedichiamo un piccolo approfondimento al tema della pace. Non parleremo di geopolitica o di ricette per fare pace. Cercheremo solo di mettere in fila alcune idee per approfondire una nuova cultura della pace.

Il primo pezzo che vi proponiamo è di Giovanni Grandi, dove in poche righe si raccoglie una possibile antropologia della pace che parte dalla guerra: in fondo, dicevano i latini, chi desidera la pace deve preparare la guerra. Ma si tratta forse di una guerra in noi? Il lavoro di Marco Bonarini riprende i testi sacri e offre qualche dritta per la giusta interpretazione della guerra e della pace per il cristiano. Anche l’articolo di Claudio Gentili riprende il rapporto tra la pace e i cristiani, ma lo fa a partire dalla Dottrina. D’altra parte il rapporto tra religione e pace è del tutto centrale (soprattutto in questo periodo). Ma non l’unico.

Ecco allora i pezzi di Francesco Vignarca sul bisogno culturale di disarmare “l’approccio bellico” dell’economia per costruire un futuro di pace, e quello di Mao Valpiana sulla forza contagiosa di uomini come Baden Powel e Gandhi per per educare alla non violenza. Tutto questo per dire che un serio ripensamento sulla pace non può non fondarsi sul rapporto con la religione, con l’educazione e con l’economia. Per la testimonianza, ecco infine la riflessione sul più importante evento nazionale in tema di pace, ovvero la marcia della pace di Perugia Assisi. Ne parla Alfredo Cucciniello. Si tratta di non lasciarsi abbattere dalla moltiplicazione delle guerre, ma di coltivare una strategia di azione perché la pace sia sempre più un valore irrinunciabile e condiviso Le marce della pace sono un patrimonio di tutti e di nessuno. E chi marcia sa che non si limita a marciare per testimoniare una pace mondiale, ma anche una pace interna: disinteressata, sempre pronta a porgere l’altra guancia o a fare un passo indietro per il bene di tutti. Sì, si può marciare in avanti anche con un passo indietro.

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