Sebbene i vincoli di bilancio gravino pesantemente sulla praticabilità delle proposte avanzate, la grave difficoltà in cui si trova una parte consistente della popolazione impone che l’introduzione di una misura di contrasto alla povertà sia messa al centro del dibattito pubblico.

Oramai da molti anni le statistiche ci consegnano l’immagine di un Paese segnato da diffuse e gravi condizioni di indigenza. Gli ultimi dati forniti dall’Istat, in particolare, rivelano che nel 2012 circa 14,4 milioni di persone si sono trovate in condizioni di povertà (il doppio di quelle rilevate nel 2005), che il 12,7% delle famiglie ha vissuto con meno di 990 euro al mese e un ulteriore 6,8% con una disponibilità di reddito così ridotta da non consentire l’acquisto di beni e servizi essenziali, che un minore su cinque si è trovato a vivere in una famiglia povera. E sebbene già questi numeri descrivano un quadro della situazione estremamente critico, non è difficile prevedere che quelli del 2013 lo renderanno ancora più drammatico.
Pur trovandoci da tempo di fronte ad una vera e propria “emergenza povertà”, le risposte messe in campo dal sistema di protezione sociale sono state finora inadeguate e inefficienti. Su questo versante, del resto, il nostro Paese risulta strutturalmente impreparato. L’Italia è infatti l’unica grande nazione europea che non dispone di una misura universale di sostegno al reddito, visto che la sperimentazione del RMI avviata nel 1998 non ha poi avuto seguito e le recenti esperienze promosse da alcune regioni hanno rilievo locale e un impatto limitato sul fenomeno. Inoltre è anche quella in cui l’efficacia dei trasferimenti monetari in grado di prevenire la povertà si segnala particolarmente modesta, come dimostrano i dati Eurostat relativi alla loro incidenza sul rischio di impoverimento della popolazione (che in Italia diminuisce del 5,1% mentre in Gran Bretagna scende del 14% e in Francia dell’11,5%).
Lasciando da parte le prestazioni assistenziali rivolte a particolari categorie di beneficiari (pensioni sociali, integrazioni al minimo), l’unico intervento specifico che il nostro sistema di welfare ha sino ad oggi previsto per la lotta alla povertà è la Carta Acquisti varata nel 2008 e recentemente rilanciata con una sperimentazione destinata prima alle grandi città e poi all’intero Mezzogiorno. Come noto, si tratta di una erogazione monetaria riservata solo ad alcuni segmenti della popolazione, la cui entità è variabile (si va dai 40 euro mensili della vecchia social card fino ad un massimo di circa 400 per i nuclei familiari numerosi della nuova social card) ma il cui impatto sul fenomeno risulta comunque modesto. Questo tipo di intervento, infatti, riveste ancora un carattere settoriale, non riesce ad aggredire efficacemente le condizioni di povertà più severe, sembra rispondere ad una logica congiunturale e soprattutto non dispone di un finanziamento continuativo. Non può certo essere questo, dunque, lo strumento con cui si realizza una seria ed efficace politica di contrasto alla povertà.

La necessità di elaborare un programma organico di lotta alla povertà, resa oramai stringente dalla drammaticità con cui il fenomeno si va radicando nella società italiana e dalla inadeguatezza degli interventi predisposti, ha recentemente trovato uno sbocco in alcune ipotesi di soluzione presentate da Acli e Caritas (il REIS, Reddito di Inclusione Sociale), dall’Istituto per la Ricerca Sociale (l’RMI, Reddito Minimo di Inserimento) e da un gruppo di studio attivato presso il Ministero del Lavoro (il SIA, Sostegno per l’Inclusione Attiva). Si tratta di proposte che in parte sono tra loro sovrapponibili ma che soprattutto condividono l’obiettivo strategico: costruire una misura di tipo universalistico in grado di assicurare in modo mirato (e quindi tenendo conto della composizione del nucleo familiare, della sua collocazione territoriale, eccetera) un sostegno economico che consenta la fuoriuscita dalle condizioni di povertà per un ragionevole lasso di tempo accompagnandola con programmi di attivazione e inclusione sociale.

Sebbene le condizioni della finanza pubblica gravino pesantemente sulla praticabilità delle proposte avanzate (il loro costo a regime si stima tra i 6 e gli 8 miliardi di euro), la grave difficoltà in cui si trova una parte consistente della popolazione ha infine imposto al Governo di considerare con rinnovata attenzione il tema della lotta alla povertà. L’impegno assunto pochi giorni fa da Letta e dal ministro Giovannini è infatti quello di convogliare una cifra importante (circa 800 milioni di euro) su un provvedimento che finalmente trasforma la social card in qualcosa di più vicino ad una misura universale di sostegno al reddito e ne potenzia la dimensione inclusiva. Il problema tuttavia è che questo impegno, che certo rappresenta un ambizioso e importante passo in avanti rispetto all’odierno quadro del contrasto alla povertà, sembra comunque avere una prospettiva temporale limitata, un finanziamento una tantum, una insuperata categorialità.
Al di là del valore dell’iniziativa governativa appena annunciata, l’unico auspico deve quindi essere che la classe politica accantoni su questo tema le logiche dell’occasionale e dello sperimentale e sappia finalmente farsi carico di una questione così rilevante facendola entrare definitivamente nell’agenda di governo. Se così non fosse, tuttavia, alla esigenza di impostare una efficace politica di contrasto alla povertà ci richiamerà comunque l’Europa, che su questo ci ha chiesto di assumere precisi impegni e che potrebbe obbligarci a procedere sulla strada degli interventi organici e continuativi. Chissà allora se almeno per una volta i vincoli imposti da Bruxelles portino alla fine una buona notizia per ciò che concerne l’ammodernamento del nostro sistema di welfare.
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