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Di fronte ad alcune forme di pensiero estremo, proviamo una sorta di stupore contraddittorio: una collera che nasce dall’incomprensione. Questo sentimento costituisce già di per sé un enigma, che chiama in causa la nozione di pensiero estremo…

Gli individui appartenenti a tali gruppi [estremisti] pongono un enigma psicologico di difficile soluzione, perché sono capaci di azioni che contravvengono alle adesioni assiologiche più elementari della persona comune (come la condanna del massacro di persone innocenti). Dobbiamo concludere che questi individui, completamente assorbiti dalla loro follia vendicativa, smettano di condividere valori elementari? Ma se ipotizziamo una completa rinuncia ai valori ordinari da parte degli estremisti, come spieghiamo il fatto che alcuni di loro riescano a un certo punto a pentirsi? […] I valori della persona comune non scompaiono nemmeno nella mente dell’estremista più sanguinario. […] Subordinando l’estremismo ai due fattori descritti (l’incondizionalità e la natura della credenza, debolmente trans-soggettiva e/o sociopatica), possiamo scartare l’idea che gli estremisti siano dei folli animati da cause piuttosto che da motivazioni, senza per questo cedere alla complicità intellettuale o al relativismo. […] Per la maggior parte del tempo, il cittadino «comune», inserito in un contesto sociale normale, stabilisce rapporti incondizionati soltanto con valori che, anche se estremizzati, non possono in alcun modo nuocere agli altri. E’ proprio questo aspetto che fa di lui un cittadino «normale» e lo distingue da un fanatico” (pp. 118-119)

Mi sono permesso di iniziare con questa lunga citazione perché la tesi di Bronner è controintuitiva e dunque di non facile accoglienza. Tuttavia, essa è molto attuale.

L’autore, docente all’Università di Strasburgo e che questo libro ha vinto il Premio europeo Amalfi per la sociologia e le scienze sociali, sostiene che in quanto esseri umani, la nostra conoscenza ha dei limiti oggettivi, che ci espone ad affidarci a delle credenze per poter stare al mondo. Molte di queste credenze sono innocue alla convivenza e quindi non sono pericolose. Altre invece, se portate all’estremo, diventano particolarmente dannose e letali, e sono quelle che ci fanno indignare di fronte a quelle che riteniamo giustamente le disumanità degli estremisti, ma che per loro sono perfettamente logiche. Questo perché non teniamo conto di come questi individui siano giunti a questi comportamenti estremi, un percorso che necessita di piccoli passi e slittamenti culturali, quasi impercettibili, e di isolamento culturale, fattori che inevitabilmente ciascuno di noi può vivere quasi senza rendersene conto.

La capacità critica su tutti gli aspetti è strutturalmente impossibile e Bronner porta innumerevoli esempi convincenti di questa dimensione della nostra intelligenza cognitiva.

Il libro è molto interessante perché riguarda, in prospettiva sociologica, come si formano le credenze necessarie per vivere, ma ha anche implicazioni filosofiche di non poco conto, anche se l’autore vuole rimanere ai margini di questi aspetti più teoretici, pur mostrando una competenza anche in questo campo.

Il primo capitolo mostra come gli estremisti non siano dei matti, ma persone che ragionano secondo una logica comune. Essi estremizzano alcuni aspetti della credenza: c’è un’unica causa che giustifica un’azione; mentre quasi sempre ce ne sono molteplici; scambiano le cause con le motivazioni di un’azione; il fine giustifica i mezzi; isolamento cognitivo; stare solo con chi la pensa come sé e considerare gli altri dei nemici; ecc.

Il secondo capitolo analizza il percorso di come si diventa estremisti, necessario per comprendere quali sono le motivazioni (e non le cause) di una scelta, sostanzialmente libera, di aderire a una credenza che diventa estrema: adesione per trasmissione, adesione per frustrazione (si entra in una compagnia accogliente che ripara dalle frustrazioni della vita), adesione per rivelazione.

Il terzo capitolo cerca di spiegare l’enigma del pensiero estremo. Qui il percorso si fa più accidentato e intrigante. Bronner ricorre a vari test sociologici e ad altre riflessioni per mostrare come diversi paradossi che riguardano il rapporto tra i valori e l’interesse, in cui siamo immersi quotidianamente, possono condurre a credenze estreme.

La conclusione propone una via di approccio per aiutare chi sta iniziando, o già si trova, in una credenza estrema, a provare ad uscirne. Il suggerimento principale è quello di non attaccare l’individuo estremo e neanche cercare di mostrargli i punti deboli della sua credenza, ma di mantenere un rapporto di fiducia e allargando impercettibilmente i confini cognitivi della sua visione unilaterale del mondo, riportandolo così ad una visione più condivisa, anche se forse più faticosa dal punto di vista delle energie mentali impiegate per sopportare le inevitabili contraddizioni della vita.

Il libro è pieno di definizioni controintuitive – che riguardano aspetti comuni del nostro intellegere e valutare – che tuttavia portano a una visione più comprensibile di come un individuo normale possa diventare un estremista.

Segnalo che Bronner ha scritto nel 2013 un altro libro, non ancora tradotto in italiano, La démocratie des crédules (La democrazia dei creduloni, Presses Universitaires de France), nella cui parte finale fa una ulteriore riflessione. Se molti credono che basti una maggiore cultura per ridurre il pensiero estremo, l’autore fa notare come la maggior parti degli estremisti siano persone di cultura medio-alta, e dunque non è questione di accrescere le conoscenze. Secondo Bronner la questione riguarda invece il fatto che a scuola non si insiste a sufficienza sulla questione del metodo con cui si valutano le credenze. Senza una coscienza di questo metodo molte persone di cultura, compresi scienziati, politici e giornalisti, possono prendere “lucciole per lanterne” e sostenere credenze non utili alla vita comune.

Quando parliamo di pensiero unico in economia, non parliamo forse di un pensiero estremo? Come mai non si riesce a scalfire questo paradigma economico dal punto di vista culturale? Forse Bronner, che non affronta questa dimensione economica, può dirci qualcosa a questo riguardo, come sembra far intuire in questa breve intervista.

Gerald Bronner, Il pensiero estremo. Come si diventa fanatici, Il Mulino, Bologna 2012

Citazioni

“Questi esempi, solo apparentemente disparati, sono espressione di un pensiero che propongo di definire estremo. In nome di un’idea, alcuni individui sono disposti a sacrificare qualunque cosa: la carriera professionale, la libertà, persino la vita (la propria o quella degli altri). Tutto è subordinato a un sistema mentale al quale aderiscono in maniera condizionata” (p. 8).

“Di fronte ad alcune forme di pensiero estremo, proviamo una sorta di stupore contraddittorio: una collera che nasce dall’incomprensione. Questo sentimento costituisce già di per sé un enigma, che chiama in causa la nozione di pensiero estremo. Mi spingerei ad affermare che le differenti manifestazioni del pensiero estremo rappresentano uno dei principali enigmi dell’epoca contemporanea. Tale enigma è scomponibile in diverse questioni che costituiscono l’ossatura del libro. Innanzitutto, è fondamentale stabilire se esista una differenza sostanziale tra il cosiddetto «cittadino normale» e l’estremista. Definire le divergenze equivale a proporre una definizione del pensiero estremo, interrogando contemporaneamente i sentimenti di irrazionalità e d’indignazione” (p. 9).

“Malgrado i processi della conoscenza umana l’individuo resta ciò che è sempre stato: un soggetto le cui capacità conoscitive presentano limiti invalicabili. Il nostro rapporto con il mondo può instaurarsi sulla base di due diverse modalità: la conoscenza e la credenza. […] In altri termini le nostre zavorre del pensiero ci impediscono di essere soggetti onniscienti, rendendoci inevitabilmente dei credenti. Come approfondirò all’inizio del capitolo primo, le zavorre sono di tre tipi. In primo luogo la nostra mente è limitata sul piano dimensionale, perché la conoscenza è imprigionata in uno spazio angusto e in un presente eterno, che impediscono l’acceso a informazioni indispensabili per formulare un giudizio equilibrato. In secondo luogo, la mente è limitata culturalmente, poiché interpreta qualsiasi informazione in funzione di rappresentazioni precedenti. Infine, la mente è limitata cognitivamente, perché la nostra capacità di elaborare le informazioni non è infinita e la complessità di alcuni problemi eccede le potenzialità del buon senso” (pp. 14-15).

“Poiché questi tre tratti sono caratteristiche antropologiche del pensiero, le nostre società restano fondate su credenze, a prescindere dallo stadio di sviluppo della conoscenza umana. Per questa ragione, le credenze che definiamo «estreme» non spariranno dall’orizzonte contemporaneo ma, al contrario, sono destinate a incarnare una forma paradossale di modernità. Ben lungi dal costituire i residui di un passato ormai compiuto, tali credenze sono un’espressione pura della contemporaneità, manifestazioni di una logica forte che siamo chiamati a decifrare. Gli individui appartenenti oggetto della nostra ricerca non sono mostri d’irrazionalità, ma appaiono al contrario estremamente logici” (p. 15).

“L’essere umano impara a simulare il punto di vista dell’altro per comprenderne e predirne le condotte. […] Quando non riusciamo più a comprendere il comportamento di un altro individuo, ipotizziamo che sia animato da una forma di irrazionalità. Interpretiamo cioè le sue azioni come la conseguenza di cause e non di ragioni” (p. 19).

“Poiché il pensiero estremo ispira talvolta credenze e atti che incarnano il male assoluto, preferiamo attribuire questi ultimi a una forma di irrazionalità incomprensibile, di psicopatia o di innata inumanità. Questi termini, in realtà, descrivono la profondità della nostra indignazione più che i processi mentali all’origine degli atti in questione […] Il fatto è che non possiamo indignarci moralmente e, allo stesso tempo, giudicare i comportamenti stigmatizzati come privi di ragione” (pp. 26-27).

“Si dice spesso che il terrorismo islamico sia una semplice reazione all’imperialismo occidentale, con grande soddisfazione dei militanti del pensiero estremo, come chiarito da Hassab Butt, ex jihadista pentito della violenza islamica in Gran Bretagna: «Ricordo la nostra soddisfazione quando sentivamo dire in televisione che la politica estera dell’Occidente rappresentava l’unica causa degli attentati islamici, come quelli dell’11 settembre, di Madrid o di Londra. Attribuendo ai governi la responsabilità dei nostri atti, i difensori della teoria delle «bombe di Blair» si facevano carico della propaganda al posto nostro, impedendo qualsiasi analisi critica del reale motore della nostra violenza: la teologia islamica»” (p. 35).

“L’idea che l’estremismo settaria sia associato a basso status sociale e a scarsa istruzione scolastica è semplicemente falsa. […] In generale la stragrande maggioranza degli autori di attentati possiede diplomi superiori e proviene da classi sociali agiate” (p. 37).

“Ritornando all’Introduzione, per comprendere il problema nella sua globalità, considerando in particolare le credenze meno radicali come l’astrologia e il paranormale, possiamo ipotizzare che l’istruzione conferisca agli individui una certa disponibilità mentale, aprendo il loro orizzonte intellettuale. Tale apertura è spesso concepita come un indebolimento dell’autorità della conoscenza ufficiale, non più intesa come definitiva. Questo meccanismo è ben illustrato dalla metafora di Pascal: quando la sfera delle conoscenze progredisce, aumenta anche la superficie di contatto con l’ignoto” (p. 39).

“Benché questa idea sia difficile da accettare, l’estremismo, a prescindere dalla forma assunta, soddisfa i criteri della razionalità. In primo luogo, perché enuncia dottrine coerenti, talvolta più dei sistemi morali del cittadino comune, costretto a scendere a compromessi di ogni sorta. E, in secondo luogo, perché tale dottrina, una volta ammessa, propone mezzi adeguati ai fini perseguiti. Di conseguenza, l’estremista non ha perso (né dal punto di vista della razionalità cognitiva, né da quello di una razionalità strumentale)” (p. 42).

“Poiché la memoria funziona in maniera selettiva, privilegiando gli elementi che confermano la nostra visione del mondo, corriamo il rischio di lasciarci intrappolare in una visione ristretta e limitata del mondo. Siamo convinti che le nostre apparentemente ottime ragioni siano dettate dall’esperienza, ma ignoriamo che sono state passate al setaccio della procedura di conferma. La distorsione di conferma è dunque una procedura alla quale ricorriamo abitualmente per farci un’idea della pertinenza delle credenze. Questo meccanismo elementare è senza dubbio il principale responsabile della perpetuazione delle credenze” (p. 63).

“Come già sottolineato da Weber, la massima condivisa da tutti gli estremisti, il loro minimo comune denominatore, è «il fine giustifica i mezzi». Per il più radicale di tutti gli estremisti, tutti i mezzi, anche i più sanguinari, sono ritenuti accettabili per conseguire i propri obiettivi” (p. 67).

“Questa dimensione contabile costituisce un dato antropologico della fede. Benché il credente pretenda di darsi alla religione senza chiedere niente in cambio, nel suo percorso emerge invariabilmente una componente di calcolo” (p. 76).

“Personalmente ritengo che la differenza tra il fanatico e il cittadino «normale» non si fondi sull’irrazionalità del primo, contrapposta alla relativa razionalità del secondo” (p. 79).

“Già nelle intenzioni, queste definizioni ignorano totalmente un aspetto essenziale: l’universo mentale del terrorista. E’ in questa terra incognita che si trova la chiave dell’enigma. Senza dubbio i metodi usati dal terrorista ne caratterizzano l’attività, ma questi mezzi acquistano un significato solo in relazione ai fini che li ispirano. Il terrorismo può essere considerato una declinazione del pensiero estremo proprio perché si fonda su un’adesione incondizionata a un enunciato, da cui è derivata una serie di conseguenze pratiche” (p. 80-81).

“Se, come sostenuto spesso dalla filosofia analitica, «credere significa credere vero», scompare dal campo della credenza ogni forma di adesione condizionata e probabilista, che tuttavia costituisce l’essenziale della vita mentale del cosiddetto «cittadino comune». Il fatto è che esistono almeno due modi di aderire a una credenza. Inizialmente la credenza è un contenuto («Dio esiste», «gli esseri umani sono tutti uguali»), ma in seguito diviene il rapporto che l’individuo stabilisce con tale contenuto” (p. 81).

“Nella mente del comune cittadino possono coesistere senza difficoltà enunciati contraddittori. La sua vita mentale è caratterizzata da una forma di concorrenza intraindividuale delle idee, resa possibile dalla natura non assoluta del rapporto stabilito con ciascuna di queste idee. Come abbiamo visto, è proprio quest’atteggiamento che suscita il disprezzo dell’estremista” (p. 83).

“L’estremista ha meno difficoltà a difendere la posizione massimalista quando è spalleggiato da altri individui che condividono le sue convinzioni (perciò è raro incontrare estremisti totalmente isolati). Tra i membri del gruppo si osserva spesso una forma di competizione verso la purezza dottrinaria” (p. 84).

“Per delineare l’universo mentale del fanatico, dobbiamo considerare la combinazione di due fattori. Aderire radicalmente a un’idea non equivale infatti ad aderire ad un’idea radicale. La specificità del pensiero estremo consiste nell’aderire radicalmente a un’idea radicale (…) Studiando a fondo le proposizioni del pensiero estremo in campi molto diversi come la religione, l’arte o la politica, sono giunto alla conclusione che, malgrado la loro diversità, esse presentano due caratteristiche comuni: sono debolmente trans-soggettive e/o sociopatiche” (pp. 92-93).

“Questo termine [trans-soggettiva] è stato introdotto da Boudon nel suo libro Il vero e il giusto: «Le definirò ragioni trans-soggettive per indicare che, al fine di risultare credibili, queste ragioni devono essere viste dal soggetto se non come dimostrative, almeno come convincenti. Chiamo dunque così le ragioni che hanno la capacità di essere abbracciate da un insieme di persone, anche se non si può parlare a loro proposito di validità oggettiva». La trans-soggettività di un’idea si misura dunque dalla sua capacità di essere accolta da altre persone, a parità di condizioni” (p. 94).

“Considero dunque sociopatiche [non nel senso della malattia mentale] le credenze dotate di una carica agonistica che implica l’impossibilità per alcuni individui di vivere insieme ad altri (se la credenza è applicata esasperandone la logica, come accade nel pensiero estremo)” (p. 110).

“L’estremista islamico è oggi considerato il nemico numero uno, l’incarnazione del male e della disumanità, perché difende in maniera incondizionata idee al tempo stesso debolmente trans-soggettive e sociopatiche” (p. 113).

“Ecco spiegato come mai le credenze proposte dalle sette sono giudicate irrazionali da osservatori che fondano il loro giudizio sul contenuto spesso assurdo di tali credenze, ignorando il carattere graduale del processo di acquisizione della dottrina da parte del credente. Ciascun momento dell’adesione a una credenza falsa può essere considerato, nel suo contesto, come ragionevole anche se l’osservatore, giudicando la credenza nel complesso, può legittimamente trovarla grottesca. Questa considerazione, per quanto banale, tende a essere ignorata dal senso comune, perché le credenze altrui si manifestano solo una volta accolte in maniera completa, mentre le singole tape del processo di acquisizione risultano invisibili per l’osservatore” (pp. 132-133).

“L’estremismo isola l’individuo dagli altri, ma non dalla sua umanità” (p. 134).

“Far cambiare idea al convertito è così difficile proprio perché l’estremismo è spesso la conseguenza di un processo incrementale” (p. 141).

“Se nascete in una famiglia di testimoni di Geova e frequentate solo altri membri di questa setta, avrete un’elevata probabilità di condividere anche voi tale dottrina. In queste circostanze, sarete confrontati a ciò che possiamo definire un monopolio cognitivo: sul mercato delle credenze cui avete accesso, non emergono valide idee alternative” (pp. 144-145).

“Gli esperti del terrorismo concordano nel riconoscere l’importanza di questo aspetto: l’estremista ha bisogno di sentirsi circondato da un gruppo che lo sostiene e lo incoraggia” (p. 146).

“Tutti i gruppi sociali (di tipo amicale, familiare o professionale) hanno la tendenza a privilegiare un tra-di-noi che definisce le frontiere della prossimità e dell’intimità. La caratteristica principale di una rete sociale consiste appunto nel favorire la diffusione di alcune informazioni piuttosto che di altre. Ma l’individuo, più o meno consapevolmente, appartiene a una moltitudine di reti, spesso in concorrenza tra loro. Le incoerenze tra reti diverse ci obbligano a compiere un lavoro mentale di definizione dell’identità. Questo sforzo cognitivo costituisce una delle caratteristiche della persona comune” (p. 149).

“Il conformismo cognitivo emerge anche in altri tipi di situazioni. Germaine de Montmollin e Claude Flament hanno evidenziato la tendenza degli individui a operare una sintesi dei discorsi che circolano in gruppo, per poi adottare preferibilmente una posizione intermedia” (p. 151).

“Le reti sociali dell’estremista sono perciò molto più omogenee rispetto a quelle di un anonimo signor Rossi. Quest’ultima osservazione suggerisce una conclusione paradossale: l’estremista è in realtà molto più conformista della persona comune” (p. 155).

“Il fattore suicidogeno, spiega Durkeim, non è tanto la miseria, quanto il brusco cambiamento sociale: “ogni rottura d’equilibrio, anche se apportatrice di un maggior benessere e di un aumento della vitalità generale, spinge alla morte volontaria” (p. 162).

“Il terrorista, tutt’altro che amorale, è spesso animato da un’estrema sensibilità nei confronti di quelle che considera intollerabili ingiustizie […] Nell’estremista più determinato, tale ipersensibilità non ammette compensazioni, né compromessi. E’ questa incommensurabilità mentale che dobbiamo tentare di spiegare per risolvere il paradosso dell’estremismo” (p. 188).

“Il libero arbitrio è solitamente descritto come la possibilità per l’individuo di compiere una scelta. Invertendo i termini, propongo di definire il libero arbitrio come la conseguenza della capacità del genere umano di considerare allo stesso tempo due opzioni contrarie o persino contraddittorie” (p. 190).

“L’adesione incondizionata a certi valori (che costituisce una delle due componenti dell’estremismo) implica una forma di incommensurabilità mentale, che rende molto difficile (ma non impossibile) l’espressione di retro-giudizi, dunque la temperanza nell’azione. E’ come se l’estremista diventasse, su alcuni temi, insensibile all’esistenza di ragioni concorrenti” (p. 195).

“Il gioco [in un esperimento] ci permette dunque di osservare come il senso di ingiustizia possa incoraggiare un individuo a rinunciare alla difesa dei suoi interessi personali. Questa disposizione mentale è precisamente quella osservata nell’estremista, convinto che il mondo (o un particolare sistema sociale) rappresenti un’offesa intollerabile a un valore abbracciato in maniera incondizionata. L’estremista che sostiene un’idea sociopatica giudicherà possibile (o persino necessaria, nei casi più pericolosi) la violazione dei propri interessi o di altri valori. Nella zona di incommensurabilità in cui si trova a vivere, è vietato l’accesso ai sistemi di ragionamento concorrenti, dunque diviene impossibile esprimere un retro-giudizio” (p. 209).

“L’andamento della curva dell’utilità in termini di valore ha conseguenze pratiche non soltanto compatibili con la vita in società, ma necessarie per consentire la convivenza. La commensurabilità mentale, cioè la corruttibilità dell’essere umano (in seguito al confronto tra interessi e valori, o tra valori diversi), costituisce la precondizione fondamentale della vita sociale. Come chiarito in precedenza, nessuna società umana potrebbe sopravvivere a lungo se gli individui che la compongono non fossero dotati della capacità di soppesare valori e interessi. Altrimenti, la minima controversia tra cittadini che sostengono tutti in maniera incondizionata le loro idee si trasformerebbe in guerra aperta” (p. 211).

“La vita sociale, nella sua variabilità incessante, potrebbe definire i contenuti del nostro universo morale, designando alcune categorie di valori come non negoziabili. La capacità di essere al tempo stesso corruttibili e incorruttibili costituirebbe una sorta di invariante morale universale del pensiero umano. L’estremista non fa eccezione a questa regola. La sua infelice originalità consiste nel considerare non negoziabili credenze che non potranno mai cementare la vita sociale (ma che farà una fatica del diavolo ad abbandonare)” (p. 214).

“Talvolta anche i parenti possono contribuire a quest’abbandono dell’estremismo, purché riescano a preservare il ruolo di mediatori credibili delle informazioni sul mercato cognitivo frequentato dall’adepto. L’essenziale, lo ripeto, è mantenere una situazione cognitiva concorrenziale” (p. 219).

“Alcune forme di privazione (alimentari, del sonno o sessuali) possono certamente contribuire a indebolire lo spirito, rendendo l’individuo più sensibile alle imposizioni psicologiche, ma per affrontare in maniera costruttiva il problema delle credenze estreme non dobbiamo mai dimenticare che al radicalizzazione è il risultato di un processo volontario e consapevole” (p. 226).

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