E’ il racconto di un incontro durato alcuni anni tra le vittime e i responsabili della lotta armata che ha segnato le vite di coloro che c’erano e che è stata quasi rimossa dalla coscienza collettiva, grazie anche alla tendenza a vivere solo il presente e a non conoscere ed approfondire la storia da dove veniamo: cosa è veramente successo, quali motivazioni hanno spinto persone a compiere gesti violenti, che li hanno resi dis-umani, come avevano disumanizzato – riducendoli a ruoli – le vittime della loro violenza.
E’ un libro che suscita profonde emozioni e che richiede quindi maturità e riflessione attenta e umile. Gli stessi protagonisti non hanno tutte le risposte e quindi occorre astensione dal giudizio prematuro per poter prima accogliere il racconto di questa esperienza per quello che è, appunto: un’esperienza, e poi, in un secondo tempo, potersi formare una propria riflessione su questa fragile esperienza di verità umana che, proprio per questo, ci interroga in tutte quelle sfaccettature che si intuiscono oltre la parola e che, a volte, rimangono solo nel cuore dei protagonisti dell’incontro del Gruppo.
Parto dall’indice perché in questo caso, più che in altri, ci aiuta a entrare in questo libro.
La prima parte illustra il percorso fatto e le motivazioni del suo farsi nel tempo, il richiamo all’esperienza della Commissione per la verità e la riconciliazione in Sudafrica, prima di tutto, come un faro che ha guidato una esperienza certamente diversa ma significativa, incontri occasionali che diventano domanda di gruppo autogestito di persone che vogliono incontrarsi nelle mille difficoltà della storia violenta che le ha accomunate, volontariamente o involontariamente.
La seconda parte, intitolata "Voci", riporta a vario titolo le riflessioni dei vari protagonisti dell’incontro, rispettando per ognuno la sua esigenza di anonimato o di farsi conoscere.
Ho praticamente cominciato da questa parte la mia lettura, perché non volevo che troppe parole “riflessive” mi condizionassero la lettura. E’ per la parte più interessante del volume perché è fatta in presa diretta su quello che è successo nel cuore e nella mente dei partecipanti. Qui occorre, più che in altre parti del libro, entrare in punta di piedi, in rispettoso silenzio del travagli di tutti i partecipanti al Gruppo.
La terza parte, “Approfondimenti scientifici e metodologici”, mette a disposizione tutta una serie di analisi giuridiche, bibliche, di memoria storica, che hanno sostenuto l’impegno di tutti i partecipanti, e non solo dei tre curatori nella loro funzione di mediatori del Gruppo, a condividere le proprie memorie, emozioni, pensieri sulla lotta armata, sul sistema giudiziario e penale, sulla storia dell’Italia, e su molto altro ancora, soprattutto sul desiderio comune di ritrovare una umanità perduta che permettesse, a quanti vi hanno partecipato, di potersi riconoscere degni di un dialogo vero e di verità.
Lo scopo dichiarato di questo racconto è quello di voler condividere con altri il dialogo iniziato, per allargarsi alla società civile e, credo, anche allo Stato per una memoria possibilmente non faziosa di quella tragica esperienza che ancora vede molti misteri che impediscono una verità condivisa.
Il libro è corredato anche da un e-book, al momento non ancora disponibile sul sito dell’editore, con altri materiali significativi che non hanno potuto trovar spazio nel testo cartaceo pubblicato.
Un grazie di cuore a tutti i partecipanti al Gruppo e che meritano il nostro plauso per il coraggio, la costanza, l’umiltà e la fatica di questo percorso che ci donano insieme.
Guido Bertagna, Adolfo Ceretti, Claudia Mazzucato (ed.), Il libro dell’incontro. Vittime e responsabili della lotta armata a confronto, Il Saggiatore, Milano 2015.
Citazioni
"Quanta verità siamo disposti ad ascoltare?" (p. 185).
"Le parole fragili e delicate sono intrecciate al silenzio, la loro fragilità rimanda alla fragilità del silenzio. Per ascoltare occorre tacere" (p. 201).
"Nell’attraversamento della «resa» ho incontrato un’umanità prima negata. E, se ha senso farci aiutare da un minimo di ironia, sono convinta che noi tutti saremmo stati peggio di coloro che volevamo combattere. Noi, che per la giustizia, ci siamo fatti giudici senza un giusto processo. Si misura anche così, la stupidità" (p. 154).
"Le aule giudiziarie in certi casi hanno già dato tutto quello che potevano dare. E allora noi abbiamo una missione. La società non sa, forse non vuole sapere. Ma noi abbiamo bisogno della parola di tutti. Abbiamo bisogno di una storia che smetta di scriversi con le stesse parole. E’ difficile, ma dobbiamo dimostrare di essere stati in grado di dialogare con l’altro. Dobbiamo custodire una memoria via per andare oltre l’incubo dei mostri e ritrovare le persone" (p. 49).
"La memoria di quegli anni è da incubi notturni, e io non volevo andare a dormire" (p. 50).
"Se penso a noi, alla nostra vicenda, la percepisco soprattutto come una lotta per l’identità. Noi e la nostra esperienza, non siamo mai stati riconosciuti nella nostra vera identità" (p. 65).
"Se devo spiegare perché ho ucciso, è come se uccidessi per la seconda volta. E’ un dramma: non c’è un perché" (p. 80).
"Noi pensavamo che la violenza dello Stato e la violenza della rivoluzione fossero distinte. In realtà, se scegli il terreno della violenza, diventi simmetrico a chi ha il monopolio della violenza, nel caso specifico lo Stato. Non fai altro che riprodurre ciò che tu vorresti combattere. E’ un discorso di simmetria: pensi di poter essere il nemico di quell’altro, in realtà ne stai diventando il figlio" (p. 83).
"Occorre essere consapevoli che un male ieri non diventa un bene oggi. Non si può pretendere di appartenere alle categorie di ex assassini o ex vittime. Si rimane per sempre tali, e radicalmente diversi, e questo pur rispettando la dignità umana di chi ha commesso il crimine" (p. 88).
"Io detesto che mi venga attribuito anche un solo pensiero che sia legato alla bontà: l’amore per me non è legato alla bontà, è legato alla giustizia" (p. 91).
"L’indicibile per me è che tanto le vittime quanto gli ex sono comunità dolenti, accomunate, per quanto possa scandalizzare e abbia scandalizzato questa convinzione, dalla stessa sindrome da stress post-traumatico, dal suo cospetto con la morte, dagli incubi di notte che ti assalgono, dai volti di chi è morto e dei suoi congiunti, da quegli spari, da quelle coltellate, da quel sangue. Umanità sfibrate che marciano faticosamente verso l’incontro,, come una luce in fondo a un tunnel, ma che basta un incubo nnotturno per fare regredire all’improvviso e dover ricominciare la marcia da un passo indietro, come a volte un sorriso a fare due passi in avanti; è che dobbiamo essere più indulgenti con noi stessi e tra di noi, mettere in conto come inevitabili gli stop and go, gli scleri, le risate nevrotiche, le cadute in depressione, gli sfoghi sanguigni, e perdonarci l’un l’altro in anticipo" (p. 105).
"Ero convinto di combattere la guerra che avrebbe annullato tutte le altre guerre" (p. 108).
"«E se avessi sbagliato tutto? Se mi fossi sbagliato su tutto?» E’ solo quando siamo senza scampo, quando non c’è più possibilità di riparare, di rimettere le cose a posto, solo quando c’è la percezione profonda che potrei aver sbagliato tutto, solo lì c’è la possibilità della speranza. E’ una convivenza paradossale, ma fecondissima" (p. 115).
"Il direttore del carcere mia ha detto: «eri un illuso. Non capisci che se non gli fregava di Moro non gli frega di te?». E io ho detto: «Voi siete un potere democratico, vi deve fregare di me»" (p. 126).
"Ogni volta che vi ascolto parlare penso a un dramma nel dramma, questo terribile e drammatico spreco di risorse umane che questa stagione ha portato. Non soltanto lo spreco di risorse umane di coloro che sono stati uccisi e non ci sono più, ma anche le vostre, voi. Sprecare intelligenze come le vostre rimane una delle ferite più grandi di questa storia" (p. 152).
"Se mio papà fosse ancora qui, sono sicuro che sarebbe qui con noi" (p. 159).
"Sono una figlia. Ci sono altri figli? Ho conosciuto il figlio di una vittima che mi ha detto: facciamo quattro chiacchiere, noi che stiamo da due parti della barricata. Io non vedo barricate e vorrei abbatterle insieme agli altri figli di chi ha sofferto. Vorrei abbatterle sulle basi di un’innocenza" (p. 172).
"Dobbiamo confrontare le due verità – la vostra, di ex, e la nostra, di vittime, E’ l’unico modo per arrivare a comprenderci tutti come vittime. Noi della violenza, voi della storia" (p. 182).
"Ma cosa dirà la gente alle vittime quando le vede vicino a noi? Loro rischiano ben più di noi…" (p. 190).
"Siamo tornati ad essere italiani qualsiasi. Oggi siamo mamme, papà, spesso ormai nonni. Sediamoci a un tavolo e parliamoci guardandoci negli occhi. Siamo ancora in tempo, siamo ancora in tempo" (p. 193).
"Lo slancio ideale degli ex terroristi, dov’è andato a finire? C’era un desiderio di giustizia nei giovani di quegli anni, che non si deve smarrire. E bisogna trovare dei modi che rendano possibile l’incontro. Ora c’è molta paura, degli immigrati, degli islamici… paura del disordine, ma il disordine esprime qualcosa che va ascoltato. La vostra iniziativa dovrebbe poter smuovere la società. C’è un mistero di speranza che ci porta avanti. Cardinale Carlo Maria Martini" (p. 197).