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Il libro è oramai un bestseller mondiale. L’analisi di Piketty sta mettendo in crisi il pensiero unico per cui se i ricchi crescono tutta la società ne giova. Il libro ha il pregio di mostrate a partire da alcuni indici chiave (es. tasso di crescita del prodotto lordo, rendimento di capitale e lavoro) come le disuguaglianze tra ricchi e poveri siano tornate ai livelli del 1914 dove erano in un rapporto di 7 a 1. L’autore non si limita all’analisi ma avanza anche interessanti proposte di politica fiscale a livello europeo

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Il libro è oramai un bestseller mondiale. L’autore è un economista francese che ha studiato a Parigi, ha frequentato la London School of Economics e il MIT a Boston e ora dirige la Ecole des hautes etudes de sciences sociales a Parigi. Sul sito piketty.pse.ens.fr/capital21c si può trovare l’introduzione, l’indice, i grafici e le tabelle pubblicati e gli annessi metodologici utilizzati, oltre al curriculum di Piketty.
La tesi di fondo si può sintetizzare così: è probabile che nel nostro secolo il rendimento del capitale sarà del 4% circa e la crescita dell’1% circa. Per questo motivo i ricchi diventeranno sempre più ricchi e le disuguaglianze aumenteranno, a meno che la politica non intervenga per diminuirle tramite una tassazione mondiale progressiva annuale sul patrimonio.

Lo stesso Piketty, che non è un ingenuo pensatore, ma ha partecipato alla campagna politica di Segolene Royal per le primarie del partito socialista nel 2007, è consapevole che nonostante il passato ci possa aiutare a capire il futuro, la storia tuttavia non è mai un processo lineare e spesso ci sorprende in bene e in male.

La novità di questo saggio è l’avere provato a descrivere cosa è successo fino ad ora ad alcuni indici statistici che servono per comprendere l’andamento del capitalismo occidentale prima e mondiale ora. Con l’avvertenza metodologica che per molti di essi non si hanno dati affidabili per calcolarli, ma stime medie che difficilmente permettono una precisa comparazione tra epoche diverse. Per esempio una bicicletta del 1914 è molto diversa da una bicicletta moderna e paragonarne il valore non è facile.

Questi indici sono il tasso di crescita del prodotto lordo, del rendimento del capitale, del rendimento del lavoro, dell’aumento della popolazione, la composizione dei grandissimi patrimoni privati, dei patrimoni pubblici, dei debiti privati e pubblici. Se la disuguaglianza tra ricchi e poveri, semplificando molto, faceva registrare un rapporto di 7 a 1, nel 1914, essa era scesa a 3 a 1, nel periodo che comprende le due guerre mondiali; dal 1950 sta ritornando ai livelli del 1914 e, presumibilmente, continuerà così per il resto del secolo.

La differenza la fanno vari fattori. Uno è la taglia del capitale posseduto. Più è grande più si hanno mezzi a disposizione per ottenere migliori rendimenti. Lo studio fatto sui capitali delle università americane, possibile perché i dati sono pubblici, mostra come le tre più grandi università (Yale, Harvard e Princeton) hanno avuto nel periodo 1980-2010 un rendimento medio annuale del loro patrimonio (che si aggira sui 30 miliardi di dollari) del 10,2%, mentre per le università con un patrimonio inferiore ai 100 milioni di dollari, il rendimento medio annuo è stato “solo” del 6,2%. Questo perché pur spendendo solo lo 0,3% per la gestione dei loro patrimoni per le grosse università questo significa circa 100 milioni di dollari, mentre per le piccole solo 300.000 dollari, che non permettono di pagare fior di consulenti per la ricerca dei migliori rendimenti possibili. Questo esempio aiuta a comprendere le dinamiche complessive che fanno aumentare le disuguaglianze.


In una fase di sostanziale stagnazione della crescita, ciò che più conta è il patrimonio ereditato, mentre in una fase di crescita economica accentuata
(dal 2% in su) conta di più l’intrapresa perché l’aumento della crescita è dato dalle novità tecnologiche, e altri fattori simili che permettono l’accumulo di nuovi capitali. L’esempio tipico sono le nuove tecnologie con Bill Gates e Steve Jobs come icone dei nuovi capitalisti.

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Un altro fattore da tenere in considerazione è l’inflazione. Con alta inflazione c’è una redistribuzione del reddito, con una bassa c’è un aumento delle disuguaglianze.

Piketty non è un ingenuo e nel capitolo finale in cui lancia la sua proposta è consapevole che non basta proporre di mettere una imposta progressiva annuale sui patrimoni. La tassa progressiva sui guadagni è stata la conquista del secolo scorso. A fronte del nuovo capitalismo finanziario occorre una nuova modalità di tassazione che, secondo Piketty, riguardi i patrimoni. Anche la tassa progressiva sui guadagni lo sembrava.
Occorre prima di tutto avere un catasto delle attività finanziarie, perché il fattore decisivo è che non si sa chi possiede che cosa e quindi come tassarlo. Piketty non parla molto dei paradisi fiscali (cfr. grafico), ma sappiamo bene come questi siano luoghi di occultamento di grandissimi capitali legali e non. Inoltre Piketty propone di dare maggiori poteri al parlamento europeo e di avere un commissario che si occupi della politica fiscale europea da rendere sopranazionale, pena l’accentuazione del minor peso dei singoli paesi nel mercato mondiale, compresi Inghilterra e Germania.
La sua proposta sta mettendo in crisi il pensiero unico per cui se i ricchi crescono tutta la società cresce di conseguenza. Piketty sta scalando le vette delle vendite su Amazon negli Stati Uniti. Paul Krugman gli ha fatto una recensione positiva sul New York Times, pur evidenziando come l’analisi di Piketty non dica nulla sulle dinamiche del potere, ma mostri solo gli andamenti che pure sono già indicativi di per sé. Ed è già in corso il tentativo da parte dei difensori del pensiero unico di screditare dal punto di vista “scientifico” il lavoro di Piketty, che ha già rintuzzato con successo le critiche ricevute.
Piketty è consapevole che l’economia non è una scienza sociale separata dalle altre: sociologia, storia, psicologia, e anche la filosofia, ma che per comprendere il mondo occorre intrecciare questi saperi.

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“La crescita moderna e la diffusione delle conoscenze hanno permesso di evitare l’apocalisse marxista, ma non hanno modificato le strutture profonde del capitale e delle disuguaglianze, o quanto meno non nella misura in cui si è immaginato potessero farlo nei decenni di ottimismo che hanno accompagnato il secondo dopoguerra. Quando il tasso di rendimento del capitale supera regolarmente il tasso di crescita del prodotto e del reddito – come accade fino al XIX secolo e come rischia di accadere di nuovo nel XXI – il capitalismo produce automaticamente disuguaglianze insostenibili, arbitrarie, che rimettono in questione dalle fondamenta i valori meritocratici sui quali si reggono le nostre società democratiche” (pp.11-12).

“Di fatto, la questione della distribuzione delle ricchezze è troppo importante per essere lasciata ai soli economisti, sociologi, storci, filosofi. E’ una questione che interessa tutti, ed è meglio che sia così. La realtà concreta e fisica della disuguaglianza è ben visibile a tutti coloro che vivono, e suscita naturalmente giudizi politici netti e contradditori” (p. 13).

“Oggi è più urgente che mai rimettere la questione delle disuguaglianze al centro dell’analisi economica e tornare a porre le domande lasciate senza adeguata risposta nel XIX secolo. Per troppo tempo il problema della distribuzione delle ricchezze è stato trascurato dagli economisti. (…) Per rimettere la questione della distribuzione al centro dell’analisi, bisogna cominciare con il raccogliere il massimo numero di dati storci, in modo da capire meglio gli sviluppi del passato e le tendenze del presente” (pp. 34-35).

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