È un concetto che ha assunto diversi significati. Il primo descrive alcune pratiche partecipative nate nelle imprese tedesche a partire dagli anni ’60, nelle quali i lavoratori possono eleggere i loro rappresentanti nei board delle maggiori imprese private e pubbliche, influendo nelle scelte gestionali e strategiche. Il secondo la considera come forma di partecipazione finanziaria dei lavoratori all’utile dell’impresa senza alcun potere e rappresentanza. Infine il concetto è stato utilizzato per segnalare la necessità di un diverso governo dell’economia mondiale.

Definizione

È un concetto che ha assunto molti e diversi significati.
Il primo significato descrive alcune pratiche partecipative presenti nelle imprese tedesche già a parire dagli anni ’60, nelle quali i lavoratori possono eleggere i loro rappresentanti nei board delle maggiori imprese private e pubbliche, influendo così nelle scelte sia gestionali sia strategiche. Il concetto di democrazia economica – ripreso inizialmente come traduzione operativa di idee del socialismo utopistico e dal marxismo – si sviluppa dunque in termini riformistici, soprattutto grazie alla socialdemocrazia europea.
In una seconda accezione la democrazia economica è concepita come forma di partecipazione finanziaria dei lavoratori al capitale e/o all’utile dell’impresa, ma senza alcun potere e alcuna rappresentanza effettiva e incisiva nei board delle stesse.

Infine il concetto di democrazia economica, anche come reazione ad un uso troppo riduttivo, è utilizzato per segnalare la necessità di un diverso governo dell’economia mondiale. In particolare si sostiene, per ciò che riguarda i beni comuni, come essi dovrebbero essere gestiti autonomamente dalle comunità interessate, a tutti i livelli (locale, nazionale, globale). In questo senso i cittadini dovrebbero potere controllare e cogestire con i loro rappresentanti i servizi pubblici di cui sono utenti e di cui, come contribuenti, sono anche “proprietari”. Il bilancio partecipato dovrebbe diventare la norma per indirizzare le politiche di spesa a favore dei cittadini e per fare funzionare bene le istituzioni pubbliche.

La democrazia economica in Europa
In ambito europeo le forme della democrazia economica si sperimentano da molti anni. L’Ue ha emanato specifiche direttive – sulla Società Europea e sui comitati aziendali europei – volte a favorire la partecipazione dei lavoratori. Ben 12 paesi dell’Ue, soprattutto nell’area renana (Germania, Austria, Olanda, Lussemburgo) e scandinava (Svezia, Norvegia, Danimarca e Finlandia), adottano già per legge dei sistemi avanzati di corporate governance, basati sulla co-determinazione. Uno studio comparativo dello European Trade Union Institute sui 27 Paesi della Ue mostra come questi dodici paesi abbiano livelli di performance – in relazione alla crescita del Pil, all’occupazione, alla produttività e agli investimenti per la ricerca e per le energie rinnovabili – migliori degli altri 15 paesi che, come l’Italia, hanno invece adottato il modello anglosassone di corporate governance. Un’altra analisi, condotta sulle imprese tedesche quotate in borsa, dimostra che in Germania le società che hanno adottato il sistema della cogestione (Mitbestimmung) hanno performance migliori di quelle ancorate al modello anglosassone che non prevedono forme di partecipazione dei lavoratori nei board delle imprese.

La democrazia economica in Italia
Sul piano giuridico in Italia l’introduzione di forme di democrazia economia sembra possibile grazie all’articolo 46 della Costituzione per cui “la Repubblica riconosce il diritto dei lavoratori a collaborare alla gestione delle aziende". Nel nostro Paese la partecipazione dei lavoratori dipendenti dell’impresa è un tema tanto dibattuto nella teoria quanto estraneo alle pratiche di gestione: per esempio manca una disciplina organica in materia di azionariato. I sindacati sostengono da diversi anni la necessità di introdurre le forme della democrazia economica (CISL) o di democrazia industriale (CGIL) fondate da un lato sulla negoziazione e dall’altro su un nuovo ruolo dei lavoratori all’interno del sistema economico che arriva a prevedere forme di controllo diretto sull’attività delle singole aziende. In questo senso va sottolineato come siano stati raggiunti accordi partecipativi in concomitanza di crisi o di ristrutturazioni (es. Alitalia) con l’obiettivo di ridare competitività alle imprese piuttosto che di correggere le asimmetrie in relazione alla distribuzione del potere. Negli ultimi anni sono state presentate diverse proposte di legge relative alla partecipazione dei lavoratori (Castro e altri n. 803/2008, Treu e altri n. 964/2008, Bonfrisco e altri n. 1307/2009, Adragna n. 1531/2009, Lannutti e altri n. 2572/2011).

Segnaliamo in particolare quella dell’on.le Savino Pezzotta che, nel 2010, ha depositato una proposta di legge finalizzata alla promozione della democrazia economica, affinché sia introdotta nei contratti collettivi sottoscritti dai sindacati (comparativamente più rappresentativi a livello nazionale) la possibilità di istituire piani di partecipazione azionaria dei lavoratori al capitale della società. Ovviamente l’adesione a tali piani da parte dei lavoratori resta volontaria. La proposta di legge affronta anche il tema della partecipazione dei rappresentanti dei lavoratori agli organi societari, avendo presenti i diversi modelli di governo societario. Nel febbraio 2012, grazie al lavoro della Commissione Lavoro del Senato, in particolare dell’on.le Pietro Ichino, si arriva ad un testo unificato sulla partecipazione dei lavoratori nell’impresa. 

Dibattito sul tema
Il riferimento teorico principale è sicuramente il grande politologo americano Robert Alan Dahl – recentemente scomparso – che nel 1989 pubblicava il libro Democrazia economica sostendo la tesi secondo cui è possibile realizzare una "struttura economica alternativa la quale (…) aiuterebbe a rafforzare l’eguaglianza politica e la democrazia mediante la riduzione delle disuguaglianze originate dalle forme di proprietà e controllo delle imprese". La democrazia economica è per Dahl un elemento irrinunciabile anche per il raggiungimento della democrazia compiuta.     

In Italia il dibattito è iniziato a metà degli anni settanta grazie alle “tesi per la democrazia industriale” elaborate da Gino Giugni che partivano dalla consapevolezza che “l’idea della gestione democratica dell’economica non può nutrirsi di una retorica sotto il cui manto si ricompongo le ideologie, i progetti, le utopie, ma deve porsi solide radici nell’analisi delle realtà”. Tale dibattito ha coinvolto prevalentemente economisti (Pasquale Saraceno, Lorenzo Caselli), sociologi (Guido Baglioni, Federico Butera), politici e sindacalisti (Tiziano Treu, Savino Pezzotta, Pier Antonio Panzeri).

Secondo Pezzotta è sul terreno della democrazia economica che si gioca il vero confronto tra chi difende il mercato come unico regolatore e chi difende la centralità dell’uomo nel suo ambiente anche economico. Ma molti sono coloro che sottolineano la necessità di creare opportunità affinché tutti i lavoratori possano partecipare alle scelte dell’impresa, anche attraverso un nuovo modello contrattuale.

Ad esempio per Lorenzo Caselli è necessario offrire ai lavoratori dipendenti la possibilità di partecipare sia agli organi societari – e quindi concorrere alla definizione delle scelte strategiche dell’impresa – sia al capitale, come azionisti attraverso l’azionariato dei lavoratori. "Nell’uno e nell’altro caso la presenza negli organi societari (tipicamente il consiglio di sorveglianza) costituisce il punto di innesco nella cosiddetta corporate governance, mettendo così “a sistema” il tema della democrazia economica". La presenza dei rappresentanti dei lavoratori negli organi societari – congiuntamente o disgiuntamente dal possesso di quote azionarie – potrebbe assumere aspetti di grande positività. "Tale presenza, ad esempio, potrebbe costituire sia un collante rispetto alle altre forme e momenti partecipativi sia un ponte capace di collegare aspetti micro ad aspetti macro, interessi individuali ad interessi collettivi. Il possesso azionario dei lavoratori, per poter contare, deve essere collettivamente gestito, attraverso associazioni che si configurano come investitori pronti a stabilire alleanze con alcuni e ad opporsi ad altri".

Giuseppe Acocella
pone l’accento sul valore dell’equilibrio da conseguire tra sviluppo economico-aziendale e contesto sociale generale, riprendendo con forza istanze partecipative e di giustizia. "Visto che il carattere sociale è il criterio eminente del disegno costituzionale italiano è da considerasi positiva l’azione che mira a rendere concreta la democrazia economica voluta dalla Costituzione". Il coinvolgimento di tutti gli attori, in particolare dei lavoratori "si rivela il modo per superare i dilemmi che la dottrina economica e quella giuridica incontrano: la democrazia economica si propone dunque come un capitolo significativo anche per la riflessione etico-politica, nella prospettiva della ricerca di un equilibrio tra responsabilità individuale e d’impresa da un lato ed interessi sociali dall’altro".

Mimmo Carrieri
e Giacinto Militello pensano che sia “lo stesso sviluppo dell’economia della conoscenza del nostro paese a richiedere in modo crescente la partecipazione dei lavoratori alle decisioni delle imprese, non solo per dare dignità e maggiore capacità produttiva al lavoro, ma per procedere con più consapevolezza, equità ed efficacia sulla via necessaria ed ineludibile dell’innovazione” .

Non sono mancate alcune voci critiche. Segnaliamo in particolare il pensiero di Pier Antonio Panzeri ed Enrico Corali che sostengono come oggi il concetto di democrazia spesso sia evocato a sproposito da chi vuole associare l’idea di democrazia a realtà, come quella economica, che con essa non hanno nulla a che fare. “Il rischio che si corre è che la democrazia economica sostituisca quella politica aprendo la porta alla sua cancellazione”.

Punti di forza
A partire da alcuni considerazioni di Caselli mettiamo in evidenza gli elementi più positivi introdotti dalle forme della democrazia economica. In particolare:
La partecipazione del lavoro al capitale d’impresa e la sua presenza negli organi conferiscono più stabilità e radicamento all’impresa, evitando le degenerazioni di un capitalismo invisibile e imprendibile, svincolato dalle esigenze e dagli apporti culturali, valoriali, relazionali e professionali che possono provenire dalle comunità territoriali di riferimento, produttrici di quel “capitale fisso sociale” che si rivela fattore decisivo di competitività e di successo.
I lavoratori direttamente coinvolti nello sviluppo dell’impresa, attenti alla qualità e quantità dell’occupazione, possono rappresentare un antidoto contro la divaricazione tra dinamica reale e dinamica finanziaria, ponendo quest’ultima al servizio di un disegno di crescita che, mentre crea benessere per tutti gli stakeholder dell’impresa, concorre alla valorizzazione del suo stesso capitale. Il destino delle aziende, come istituzioni produttrici di ricchezza e di benessere non può essere delegato agli esiti di giochi meramente finanziari espropriando i luoghi dell’intelligenza e della progettualità reale.
La partecipazione dei lavoratori concorre a creare un clima di consenso e di fiducia che può contribuire ad accrescere (nel medio periodo) la redditività dell’impresa, creare risorse addizionali, spendibili anche nella tradizionale attività negoziale e contrattuale.
L’azionariato dei lavoratori può diventare l’elemento connettivo dell’impresa. Ciò attraverso l’attivazione di una circolarità virtuosa tra proprietà, governo, controllo e gestione dell’impresa stessa.

Punti di debolezza
– L’introduzione di sistemi di partecipazione potrebbe generare un doppio danno, che deriverebbe al lavoratore che avesse investito i suoi risparmi in azioni dell’azienda in cui egli presta la sua attività. In caso di crisi o di fallimento dell’azienda stessa il lavoratore si verrebbe a trovare in una situazione particolarmente difficile. (Molesti)
Più i percorsi partecipati in azienda sono formalizzati (e stabilizzati), tanto più la partecipazione appesantisce i processi e i tempi decisionali, con effetti negativi sulla competitività. (Molesti).
Vi sono anche due critiche “striscianti”. La prima sostiene che in Italia qualsiasi forma di co-determinazione “alla tedesca” trovi resistenze molto forti di Confindustria (Grazzini). La seconda invece afferma che la “democrazia economica” è un concetto usato per mascherare e addolcire la subordinazione del lavoro all’impresa e al capitale o come possibilità di realizzare formule di collaborazione a livello puramente operativo tra lavoratori, quadri e manager, per esempio, per aumentare la produttività, garantire maggiori livelli di flessibilità e di sicurezza sul lavoro.

Il pensiero delle Acli
Nel documento Verso un stato del lavori (2009) le Acli affermano con convinzione che “la strada della democrazia economica appare oggi come esigenza fondamentale per realizzare una vera democrazia compiuta in quanto favorisce lo sviluppo di forme di partecipazione dei dipendenti ai processi decisionali dell’impresa e alla distribuzione degli utili prodotti dalla stessa. Ad oggi gli strumenti tecnici che possono costruire i pilastri necessari alla realizzazione della democrazia economica sono i fondi pensione e l’azionariato collettivo. Nuove circostanze, quali ad esempio la riforma del diritto societario e il processo di privatizzazione di importati società industriali, hanno incentivato la diffusione dell’azionariato dei lavoratori secondo una prospettiva che coinvolge finalità di politica economica e sociale. Per è necessario dare la possibilità a tutti i lavoratori di esercitare il diritto alla partecipazione dei lavoratori alla vita aziendale”. Questo diritto può essere configurato in forme diverse che vanno dall’obbligo di consultazione delle organizzazioni sindacali alla partecipazione agli utili dell’impresa.

rn

Bibliografia
Acli, Verso un Statuto dei lavori, Roma 2009.
Acocella G., Lavoro e lavoratori: motore di democrazia e sviluppo, in “Scuola e Formazione” rivista della CISL maggio/giugno 2011.
Baglioni G., Tutela e partecipazione per regolare il rapporto di lavoro, in “Sociologia del lavoro e delle organizzazioni”, F. Angeli, Milano 2003.
Benedetti L.(a cura), Democrazia economica e democrazia industriale: la prospettiva europea, il caso italiano, in “Sociologia del lavoro”, Franco Angeli, Milano 1994.
Carrieri M., Militello G., "La democrazia industriale, oggi, è possibile? Noi la vogliamo?" in Laura Pennacchi (a cura), Tra crisi e grande trasformazione. Libro Bianco per il Piano del Lavoro 2013, Ediesse, Roma 2013.
Caselli L. (a cura), Processi di globalizzazione e democrazia economica, “Economia e politica industriale", F. Angeli, Milano 1997.
Caselli L., La responsabilità sociale dell’impresa tra democrazia e mercato, in Sinergie n. 67/2005.
Dahl R.A., La democrazia economica, Il Mulino, Bologna 1989.
Giugni G., Il problema del controllo operaio e della democrazia industriale, in Problemi del Socialismo e in Quaderno n. 5/1977 di Mondoperaio.
Grazzini E., Il modello tedesco per la democrazia economica, in Micromega 2012.
Grazzini E., Manifesto per la democrazia economica, Castelvecchi, Roma 2014.
Molesti R. (a cura), Impresa e partecipazione. Esperienze e prospettive, F. Angeli, Milano 2006.
Pagano U., Rowthorn R, Selezione di mercato e democrazia economica, Università di Siena 1994.
Panzeri A., Corali E., La democrazia economica, Jaca Book, Milano 2004.
Pezzotta S., Democrazia e rappresentanze, 44a Settimana Sociale dei Cattolici Italiani, Ufficio Nazionale per i problemi sociali e il lavoro della CEI, Bologna 2004.

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