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Pubblichiamo la sintesi di un contributo del professor Antonio Papisca – morto lo scorso 16 maggio – apparso nel volume, curato da Lino Bosio e Fabio Cucculelli, "Costrure l’unità della famiglia umana. L’orizzonte profetico del Cardinale Pietro Pavan (1903-1994). Un modo per rendere omaggio a questo compagno di viaggio del nostro cammino verso il bene comune.

(…) Ricorre quest’anno il quarantesimo anniversario della “Pacem in terris” e molti sono i convegni dedicati all’approfondimento dei contenuti della grande Enciclica. Mi trovo anch’io a partecipare a taluni di essi. E ogni volta mi interrogo su quale sia lo specifico cristiano dei dibattiti che vi si svolgono.

Partendo proprio dalla “Pacem in terris” e quindi dalle riflessioni di mons. Pavan, io oso dire che lo specifico si riassume nel binomio risurrezione-speranza. Speranza come virtù che è allo stesso tempo teologale e civica. Speranza come virtù attiva, il cui esercizio comporta progettare e rimboccarsi le maniche, insomma darsi da fare nell’esplorare percorsi, nell’aprire orizzonti, nell’imboccare quelli che sono già aperti. Nel tempo che stiamo vivendo, in cui pare quasi impossibile uscire dalla morsa dei determinismi bellicistici, c’è bisogno più che mai di operare con speranza.

La “Pacem in terris” ci aiuta ad allenarci all’esercizio di questa virtù, ci offre la palestra per individuare i “segni dei tempi” e mettere a frutto i talenti della storia che stanno dietro questa metafora. Nell’enciclica c’è una grande lezione di spiritualità, e, insieme con essa, c’è anche il suggerimento di una preziosa metodologia. Sono d’accordo con alcune diagnosi che sono state fatte questa mattina, sempre con riferimento alla “Pacem in terris”, nel senso che proprio gli anni che stiamo vivendo confermano profezie e preconizzazioni contenute nell’Enciclica, ne sono una validazione di carattere anche scientifico. La “Pacem in terris” indica in particolare, tra i segni dei tempi, la Dichiarazione universale dei diritti umani del 1948 e l’Organizzazione delle Nazioni Unite. A distanza di quarant’anni, la duplice “segnalazione” continua a lampeggiare, a dirci – ad ammonirci… – che il seme è buono e si è radicato, ma che occorre aiutarlo a sviluppare tutte le sue potenzialità. Ci si appella oggi alla “centralità” delle Nazioni Unite e in ogni parte della terra si invoca la legge dei diritti umani.

Certamente l’Organizzazione delle Nazioni Unite non ha tutte le capacità che sono necessarie per prevenire e far cessare i conflitti violenti nel mondo, anche perché i più forti tra i suoi stati membri non glielo consentono, ma esse hanno pur sempre innovato positivamente nella vita di relazione del pianeta: per esempio, sviluppando la cultura della cooperazione allo sviluppo e più in generale del multilateralismo, gestendo l’accessione all’indipendenza dei popoli sotto dominio coloniale, dando visibilità al ruolo delle organizzazioni non governative, facendo dell’Apartheid un vero e proprio tabù. Non lasciamoci prendere dal panico, come se dovessimo partire dal nulla nel costruire un ordine mondiale di pace, più giusto, equo, solidale e democratico. A dirci che non partiamo da zero è la stessa “Pacem in terris”.

A partire dal 1945 il mondo è stato attrezzato di strutture e di leggi che lo fanno somigliare ad una casa ricca di elettrodomestici. Il problema sta nel fatto che queste risorse sono spesso lasciate in disparte, non utilizzate adeguatamente, spesso addirittura non conosciute. La prima cosa da fare, oggi, è pertanto quella di prendere conoscenza e di sviluppare la consapevolezza dei talenti che la Provvidenza divina operante nella storia ci ha messo a disposizione. Per farli fruttare. La Carta delle Nazioni Unite inizia con la famosa asserzione di soggettività democratica: “Noi, Popoli delle Nazioni Unite” e prosegue con la proscrizione della guerra (‘flagello’) e il riferimento ai diritti fondamentali della persona e dei popoli. Coerentemente, dispone per l’allestimento di un sistema di sicurezza collettiva, sotto l’autorità sopranazionale dell’Onu. La Dichiarazione universale del 1948 proclama a sua volta che “il riconoscimento della dignità inerente a tutti i membri della famiglia umana, e dei loro diritti eguali e inalienabili, costituisce il fondamento della libertà, della giustizia e della pace nel mondo”, dunque per la prima volta nella storia dell’umanità un documento giuridico internazionale assume la dignità umana quale fondamento dell’ordine mondiale e di qualsiasi altro ordinamento.

La “Pacem in terris” riprende questa frase e la completa, io direi la corrobora, con il riferimento alla verità e all’amore. La Dichiarazione universale non è rimasta sola. Insieme con la Carta delle Nazioni Unite, essa si pone a fondamento di quel “nuovo” Diritto internazionale, un vero e proprio “Ius Novum Universale”, che finalizza i tradizionali principi ‘pacta sunt servanda’ (i patti devono essere rispettati) e “consuetudo est servanda’ (la consuetudine deve essere rispettata) al servizio del superiore principio ‘humana dignitas servanda est’ (la dignità umana deve essere rispettata).

Il “nuovo” Diritto internazionale è un diritto intrinsecamente umanocentrico, è il nucleo “costituzionale”, come dire lo zoccolo duro, dell’ordinamento generale, è il Diritto della vita e per la vita, dunque della pace e per la pace. Come tale, esso fu preconizzato dal venerabile Giuseppe Toniolo (vedere al riguardo la lettera indirizzata a Benedetto XV nel 1917) ed è oggi un vero e proprio “miracolo strutturale”, da utilizzare quale uno degli antidoti efficaci alle strutture di peccato insite nella tradizione logica statocentrica del sistema internazionale, ma anche, oso sperare, per accelerare la beatificazione di Toniolo. Nel volgere di cinquant’anni – un attimo nella storia plurimillenaria dell’umanità – sono entrate in vigore numerose Convenzioni giuridiche sui diritti umani: le più recenti sono quelle sui diritti dei bambini e sui diritti dei lavori miranti e dei membri delle loro famiglie. Con l’avvento della Corte penale internazionale, ci stiamo addentrando nell’era di un diritto sopranazionale che annovera tra i suoi principi anche quello della “responsabilità penale internazionale personale”, una novità assoluta che accentua il superamento della sovranità degli stati in un settore delicato quale appunto quello della giustizia penale. Riconoscere la dignità della persona e i suoi diritti inviolabili e inalienabili con norme di Diritto internazionale significa riconoscere la stessa persona quale “soggetto originario” dentro e fuori dello stato d’appartenenza. Questo comporta che, ai sensi del vigente diritto, gli stati sono da considerare sistemi ‘derivati’, come dire strumentali, anche nel sistema delle loro relazioni esterne. Per questa materia, Jacques Maritain è stato maestro, soprattutto con la sua opera “L’uomo e lo stato”, scritta nel 1944. Il grande filosofo, come noto, è stato anche tra gli ispiratori della Dichiarazione universale, insieme con René Cassin e Eleanor Roosevelt.

Nella Dichiarazione universale c’è molto “umanesimo integrale”, in virtù di essa il concetto di “persona umana” diventa anche un concetto di diritto internazionale, non più soltanto di natura filosofica, antropologica, teologica. Ai sensi del vigente Diritto internazionale, dire persona significa dire “statuto giurico” di chi è titolare di diritti fondamentali universalmente riconosciuti. Parimenti, dire “famiglia umana” è dire ‘comunità universale dei soggetti di diritti fondamentali’, linguaggio giuridico anche in questo caso. Qual è la sfida di questo segno dei tempi? Impossessarsi di quanto fin quì realizzato e dargli maggiore efficacia operativa. Agire in progressione. Una priorità è quella di elucidare il nuovo concetto di cittadinanza e operare perché anche le politiche assumano contenuti congrui. La Dichiarazione francese del 1789, assunta come paradigmatica in materia di diritti umani, anche se limitata all’ordinamento interno francese dell’epoca, proclamava solennemente i “diritti dell’uomo e del cittadino”, distingueva tra persona e cittadino. Di fatto anche le successive Costituzioni nazionali nei vari paesi partivano dallo stesso assunto: I diritti fondamentali era riconosciuti ai propri cittadini. A partire dal 1945-1948 cade la distinzione-discriminazione tra persona e cittadino. I diritti internazionalmente riconosciuti sono “human rights”, “droits de la personne”, “derechos humanos”, “diritti della persona”. Titolarità dei diritti universalmente riconosciuti significa “statuto giuridico di persona” e questo significa sua volta “cittadinanza originaria” cioè universale, comune a tutte le persone umane. Le cittadinanze nazionali o anagrafiche diventano cittadinanze complementari, come dire articolazioni e specificazioni della comune cittadinanza universale.

In questo contesto di sviluppo del Diritto universale è in crisi la cosiddetta governance degli stati, come dire c’è la legge buona e giusta ma non ci sono tutte le capacità necessarie per darle attuazione. A ben vedere questa crisi ha carattere non di congiunturalità, è crisi strutturale, investe cioè la stessa “forma Stato” con le tradizionali connotazioni di “nazionale, sovrano, armato, confinario”. I processi di globalizzazione il cui impatto, al negativo e al positivo, si riversa direttamente nel quotidiano vivere delle famiglie, dei gruppi, delle aziende, degli enti di governo locale (somministratori naturali di servizi essenziali), stanno erodendo in maniera irreversibile il concetto e la prassi della sovranità degli stati. Occorre porsi nell’ottica della “governabilità globale” (global governance), che per noi italiani significa innanzitutto realizzare velocemente l’unità politica del continente europeo e operare perché la “Unione Europea” faccia alcune “scelte preferenziali”, quali il potenziamento e la democratizzazione dell’Onu, l’istituzione di una “Comunità di cooperazione e sicurezza del Mediterraneo”, l’aiuto e la cooperazione con l’Africa. In questa prospettiva, occorre impegnarsi a ridefinire la statualità in termini di “statualità sostenibile”, come dire che le funzioni di governo vanno distribuite lungo una scala di livelli territoriali che partono dagli enti di governo locale e giungono fino ai grandi santuari della politica internazionale, con la dovuta centralità assegnata all’Organizzazione delle Nazioni Unite.

Veniamo ora alle difficoltà del momento. In questa crisi generalizzata di capacità di governo si inserisce il dilagare del terrorismo, cui si risponde con iniziative a dir poco dissennate se si pensa al tentativo di rilanciare la “guerra preventiva”, di violare il vigente Diritto internazionale, di declassare il ruolo delle Nazioni Unite, di assottigliare i fondi destinati alla cooperazione allo sviluppo, di investire ingenti risorse nella conquista dello spazio, ecc.

(…) I fatti dimostrano che la guerra, oltre che violare la vigente legalità internazionale, non risolve le controversie, che l’unilateralismo “non paga”. Anche di fronte a queste evidenze di carattere empirico rimane attuale il messaggio dei “segni dei tempi”.

La costruzione di un ordine mondiale pacifico non può che seguire le tracce indicate dalla “Pacem in terris”: le Nazioni Unite e il Diritto internazionale dei diritti umani. Occorre quindi, da un lato, andare alle radici del terrorismo e delle ingiustizie che lo alimentano, dall’altro porre mano, senza indugio, alla riforma delle Nazioni Unite, per potenziarle e democratizzarle. Si tratta di fornire alla massima Organizzazione mondiale una legittimazione quanto più diretta possibile (tra l’altro, creando una seconda Assemblea generale nella forma di un’Assemblea parlamentare), assicurarle in permanenza un più altro grado di partecipazione politica popolare ai suoi processi decisionali (dando più spazio alle organizzazioni non governative con status consultivo), rendere più rappresentativo e meno oligarchico il Consiglio di sicurezza, potenziare il ruolo del Consiglio Economico e Sociale in ordine all’orientamento sociale dell’economia mondiale. Perché si proceda speditamente, occorre che un attore politico forte se ne faccia carico. Come prima accennato, questo attore non può che essere l’Unione Europea la quale avrebbe tutte le carte in regola per proporsi al mondo quale modello di pacificazione (già realizzata al proprio interno) e quale laboratorio di “statualità sostenibile”.

Come ammonisce Giovanni Paolo II i valori – tali sono i diritti umani e la democrazia – si propongono, non si impongono. La via dei diritti umani e della democrazia è fatta non di bombe né di egemonismi, ma di comunicazione, di scambio, di dialogo, di cooperazione. Nel mondo globalizzato il contesto, razionale e ragionevole oltre che legittimo, in cui portare avanti questa operazione di civiltà del diritto e di civiltà dell’amore non può che essere quello delle istituzioni in cui il multilateralismo si realizza quotidianamente.

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