Partiamo da queste due apparentemente semplici domande che spesso diamo per scontato. In realtà un termometro indica soltanto di quanto il mercurio si è espanso; poi dietro c’è un’asta graduata che ci permette di leggere lo spostamento; tutto qui. Solo per convenzione, se il mercurio oltrepassa la tacca dei 37, allora diciamo che è febbre, ma quell’asta graduata è stata messa da qualcuno e non è detto che corrisponda ai gradi effettivi.
Tutte le nostre rilevazioni sociali sono basate sul passaggio di moneta; è la moneta l’unico metro di paragone che abbiamo per misurare tutte le nostre cose. Da essa scaturisce il valore che noi diamo alle cose, dai cavoli del mercato ai mobili delle stanze, per finire ai nostri patrimoni. Non abbiamo altro strumento di misura e comparazione: dunque ci affidiamo ciecamente alla moneta come unico ed insostituibile mezzo per la misurazione del nostro benessere.
Abbiamo talmente fiducia che non ci poniamo mai la domanda: sarà poi così vero? L’Italia, culla dell’umanesimo, si è dimenticata del mito di re Mida, o per i più acculturati, del dialogo tra Alessandro Magno e il “clochard” Diogene: “chiedimi qualunque cosa e te la darò” e il filosofo “scansati che mi pari il sole”.
Dunque il punto di fondo è questo: rapportare tutto a moneta è un indicatore esaustivo? Ormai da oltre un decennio si ragiona attorno al Pil perché da molte parti viene considerato uno strumento troppo “grezzo” per misurare il benessere, tanto che gli istituti centrali di statistica dell’UE hanno formulato un altro indicatore, il Bes (Benessere equo e sostenibile) , che oggi muove i primi passi.
Questo nuovo indicatore si basa sul rilevamento dei servizi sociali e alla persona presenti sul territorio, come la salute, istruzione, tempi di vita, sicurezza, patrimonio culturale, ambiente, ricerca e innovazione, ecc. E’ un primo, timido, tentativo per uscire dalla “morsa” strettamente monetaria per quantificare il livello di benessere; tuttavia per i dati strettamente economici anche il Bes è obbligato a usare la moneta come unico parametro. Inoltre, come ogni altro rilevamento, considera l’oggetto stesso del rilevamento in modo uniforme, senza entrare nel merito della composizione sociale, degli usi e costumi ed in definitiva della cultura prevalente in un dato territorio.
L’Italia ha il più basso indice di inurbamento europeo: ciò significa che la stragrande parte della popolazione vive in città piccole o piccolissime tanto che ben 40 milioni di persone vivono negli 8.000 comuni sotto i 50.000 abitanti, praticamente dei paesi, e soltanto 8 milioni abitano in comuni sopra i 300.000. Questo significa che il territorio è fortemente antropizzato e se a questo si aggiunge che l’84% degli italiani vive in una casa di proprietà (altro caso unico in Europa), si capisce bene che ognuno accudisce alla manutenzione della propria abitazione in modo diretto senza l’ausilio di ditte esterne. Sempre per lo stesso motivo, molti si riscaldano con la legna del proprio bosco e coltivano l’orto del proprio campo, hanno sul proprio tetto pannelli solari e fotovoltaici.
Le piccole comunità facilitano l’assistenza temporanea tra vicini e all’interno delle stesse relazioni parentali pur abitando in abitazioni diverse, inoltre hanno stili di vita per loro natura molto meno dispendiosi di chi abita in città, come in Italia quella minoranza di 8 milioni, o come succede in tutto il resto d’Europa.
Il volontariato sociale, altro caso unico in Europa, rappresenta efficacemente la somministrazione di beni e servizi senza che intercorra la moneta per quantificarli, dunque anche qui siamo nell’impossibilità di una esatta contabilizzazione nazionale. Questi fattori cui ho accennato, a titolo di esempio, permettono di ottenere benefici senza alcun esborso di denaro e quindi sono per la loro stessa natura, invisibili ad ogni rilevazione statistica, sono impossibili da quantificare e paragonare sempre per lo stesso motivo.
Negli anni ’70 questa mancata rilevazione, non era un problema grave, perché era un fenomeno del tutto marginale e comunque lo si considerava residuale di una società arcaico-contadina che stava progressivamente scomparendo. Le città avevano raggiunto la massima loro espansione, come dimostra il censimento del 1971, ma soprattutto era il modello della vita cittadina che informava tutta la società.
Da allora, lentamente, ma costantemente, dopo tre secoli di inurbamento, si è avuto il fenomeno contrario: la fuga dalla grande città, con una perdita media, in 40 anni, del 25% degli abitanti che si sono trasferiti nei piccoli comuni e nei borghi.
Con il trasferimento della residenza sono cambiate molte cose, innanzitutto gli stili di vita, la città ha perso la sua forza intrinseca culturale, e ha cominciato a emergere quella della piccola comunità.
Dal punto di vista strettamente economico, si sono progressivamente dilatate le acquisizioni di beni e servizi senza l’uso della moneta, ma soprattutto l’autoproduzione ed è andata emergendo una economia “curtense” propria del borgo. Se fino a tutti gli anni ’90, questa economia invisibile era ancora trascurabile, adesso non lo è più, perché la crisi economica ha accelerato fortemente questo processo e lo ha reso irreversibile.
E’ proprio in quegli anni che si sono sviluppati, e continuano ad espandersi, i supermercati “fai da te” dove la gente compra gli strumenti necessari ad un lavoro in casa e poi lo fa con le proprie mani senza ricorrere a ditte specializzate del settore. Se in questo settore ci fosse una indagine seria scopriremmo dati eccezionali.
Complessivamente stiamo parlando di una economia invisibile che, prudenzialmente, si aggira attorno al 13% del Pil e che nessuno riesce ad osservare, e come ovvio, non può essere più considerata trascurabile, anche perché è in forte crescita. Non è un caso infatti che, se si assumono due famiglie con la stessa composizione, lavoro e cultura, una abitante nel borgo e l’altra in un condominio in città, la prima si è salvata dalla crisi mentre la seconda ne subisce tutte le conseguenze, sia economiche, familiari e sociali; tra l’una e l’altra ci sono di mezzo dai 12 ai 20.000 euro annui di reddito, che fanno la differenza.
Dunque le rilevazioni che facciamo hanno un vizio di fondo congenito: tralasciano un segmento importante che, comunque, crea ricchezza diffusa sul territorio e nuove relazioni sociali. C’è bisogno di nuovi strumenti di analisi che entrino nel merito delle cose saltando il fattore “moneta” il quale riesce a misurare solo una parte delle cose ma ne tralascia una altrettanto importante. Non è facile, lo diciamo subito, ma è impellente fare uno sforzo di fantasia per riuscire a capire dove stiamo andando.