Decantato il dibattito ideologico, resta da capire l’impatto che il Jobs Act avrà sul mercato del lavoro italiano. Infatti non sono le leggi a creare i posti di lavoro. Semmai possono concorrere a incentivare una propensione alla crescita economica e occupazionale. Siamo di fronte ad una sfida che riguarda: riorganizzazione dei servizi per il lavoro, gestione unificata di politiche attive e interventi di sostegno al reddito, creazione di un’offerta formativa in grado di riqualificare le competenze obsolete, riorganizzazione delle competenze tra Stato e Regioni.

Decantato il dibattito ideologico sul Jobs Act resta da capire l’impatto che questa riforma potrà avere sul mercato del lavoro italiano. Nessuno si illuda: non sono le leggi a creare i posti di lavoro, semmai, se sapranno essere efficaci, potranno concorrere e incentivare una propensione alla crescita dell’economia e quindi dell’occupazione.

Tuttavia le difficoltà come per altre riforme, anche per il Jobs Act, restano quelle di contesto socio-economico. Uno degli indicatori di maggiore preoccupazione che ha caratterizzato gli otto lunghi anni di crisi che stiamo attraversando, oltre alla caduta occupazionale è sicuramente il drastico calo degli investimenti. Non si tratta del consueto trend che accompagna tutti i periodi di crisi è invece un serio indicatore del disorientamento che vive il nostro paese.

I soldi tuttavia non mancano – come ci ricordano i report periodici sulla raccolta dei fondi gestiti – ma gli investimenti sono crollati: diminuendo di quasi il 60% quelli esteri e di oltre il 30% quelli privati interni. Mentre i primi si iscrivono nella caduta di credibilità che ha riguardato il nostro paese negli ultimi 15 anni e nella lentezza dei processi di innovazione e di riforma; i secondi sono prima di tutto indice chiaro di una pesante caduta della propensione al rischio di impresa e di un disorientamento nelle scelte industriali di questo nostro paese. Eppure la ripresa degli investimenti è la leva fondamentale per produrre crescita e occupazione e se non ripartono non si potrà avere nessuna visione ottimistica sull’evoluzione del mercato del lavoro.
Ci sta provando anche l’Europa con il piano Juncker con l’obiettivo di attivare investimenti privati e pubblici nel vecchio continente per 315 miliardi di euro, in tal modo contrastando la pesante disoccupazione e il pericolo di deflazione.
Ma torniamo al Jobs Act. Un primo indicatore di efficacia potrà essere paradossalmente la contrazione del numero dei contratti di lavoro che ogni anno vengono attivati. Nell’ultimo quinquennio il numero medio annuo di nuovi contratti di lavoro stipulati in Italia è stato di 10 milioni. Questo numero, impressionante, registrato dalle comunicazioni obbligatorie del Ministero del Lavoro, è dovuto al fatto che circa l’80% delle assunzioni avveniva con contratti a termine, molti dei quali venivano rinnovati più volte all’anno, molti ancora avevano durata di poche settimane. La riduzione pertanto del numero di contratti ed il parallelo aumento di quelli a tempo indeterminato, che negli ultimi anni sono andati stabilmente diminuendo ( dai 2 milioni del 2011 al milione e mezzo del 2014) saranno chiari indicatori che la riforma sta concorrendo a rimettere un po’ di ordine nel mercato del lavoro.

Non sarebbe irragionevole attendersi inoltre un effetto che solo parzialmente potrebbe sembrare negativo: cioè l’aumento della disoccupazione. Ciò in verità sta già avvenendo, sul versante della disoccupazione giovanile, per effetto della Garanzia Giovani che con i suoi oltre 500 mila giovani inseriti nel programma ha fatto emergere dalla condizione sommersa di neet un pezzo di questa ampia platea di giovani. Disoccupazione che potrebbe aumentare anche per il riaffacciarsi di una fetta di adulti scoraggiati che si sono fino ad oggi sottratti da ogni ricerca attiva del lavoro.

Resta in ogni caso da tener d’occhio l’indicatore più rilevante, quello del tasso di occupazione, che è anche il più preoccupante per la società italiana vista la sua esiguità che lo ha confinato negli anni recenti tra il 58 e il 56%, rispetto al 74% della Germania.
Sarà inoltre molto utile valutare gli effetti della nuova riforma anche comparando gli andamenti occupazionali nelle imprese con meno di 16 dipendenti e in quelle con dimensioni maggiori. E’ noto infatti come le modalità di applicazione della vecchia norma relativamente all’articolo 18 della legge 300, proprio perché esentava le aziende con meno di 16 dipendenti dalla sua piena attuazione aveva finito per rappresentare un forte limite alla crescita delle imprese italiane, che proprio per non sottostare alla regola della reintegrazione preferivano mantenersi in una misura sottodimensionata.

Una recente indagine della Cisl del Veneto ci aiuta ad introdurre la vera questione che il Jobs Act vuole affrontare. Superare il dualismo del mercato del lavoro italiano. In Veneto su 1,3 milioni di lavoratori solo il 51% poteva beneficiare delle tutele del vecchio articolo 18. La rimanente metà si suddivide tra: dipendenti a tempo indeterminato in piccole imprese (sotto la soglia dei 16 dipendenti), dipendenti con contratti a termine, collaboratori domestici e parasubordinati. Nella sostanza 690 mila tutelati dall’ex art. 18 e 640 mila senza tutela. Indiscutibilmente un gran passo in avanti che argina le vecchie e insostenibili discriminazioni, tenute in vita da una regola ormai arcaica rispetto alle grandi trasformazioni del mercato del lavoro.

C’è inoltre da auspicate che questo nuovo e più omogeneo quadro di riferimento normativo sospinga il sindacato a farsi interprete e rappresentante di quella parte del lavoro troppo trascurata che riguarda i lavoratori nelle piccole imprese e nelle condizioni di maggiore instabilità, superando una visione di tutela del posto a favore di una visione contrattuale di maggior tutela del lavoratore nel mercato del lavoro.

Ma come tutte le passate riforme e i pregevoli tentativi fatti negli ultimi 15 anni di riformare il mercato del lavoro italiano, anche il Jobs Act dovrà vincere la più ardua delle sfide che è quella gestionale e organizzativa. Introduciamo così l’altro vero obiettivo strategico della recente riforma: la riorganizzazione dei servizi per il lavoro; riunificare cioè in una unica gestione politiche attive e interventi di sostegno al reddito, creare reti efficienti in grado di accompagnare verso il reingresso al lavoro coloro che lo perdono, costruire una strutturata offerta formativa in grado di riqualificare le competenze obsolete di una parte della platea dei lavoratori adulti, dar vita ad una filiera formativa dual sistem dove impresa e istituzione formativa concorrono alla formazione delle competenze professionali.

E’ una sfida ardua, sulla quale altri Governi si sono cimentati senza rilevanti successi. E’ una sfida anche di riorganizzazione delle competenze istituzionali tra Stato e Regioni, tale da farci superare la grave frammentazione del paese, che su questioni cruciali sta viaggiando con rilevantissime differenze. Con la conseguenza che proprio laddove sono più critiche le condizioni socio-economiche e occupazionali e sarebbe richiesta una maggiore efficienza nei servizi per essere da volano alla crescita, il paese si trova nel più desolante immobilismo.

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