Un interrogativo si palesa. La violenza sulle donne è un problema degli uomini? Lascio aperto questo interrogativo per sottolineare che la questione non si può ridurre semplicemente alla coppia vittima-carnefice. Anzi proprio il superamento della coppia vittima-carnefice può sovvertire la prospettiva e aprire al nuovo.
La violenza maschile contro le donne emerge sempre di più come epidemia sociale diffusa in tutto il mondo. I numeri sono allarmanti. E gli Stati cercano di rispondere con campagne di sensibilizzazione, di prevenzione, di educazione, e trasformazione di comportamenti, atteggiamenti, valori, ma qualcosa resiste. Le nuove politiche europee di lotta alla violenza sulle donne ribadiscono la necessità di intervenire sugli autori. È opportuno ricordare che negli Stati Uniti sono attivi già dalla fine degli anni 70 programmi di intervento sugli uomini. E in Europa invece si inizia a lavorare sugli autori di violenza alla fine degli anni 80. In particolare si punta l’attenzione non solo alle donne ma anche ai bambini vittime e/o testimoni di violenza.
In Italia qualcosa si muove solo all’inizio del nuovo millennio. Oggi la violenza sulle donne viene letta non solo come semplice riproposizione della cultura e del potere patriarcale, ma anche come incapacità degli uomini di accettare la libertà e l’autonomia delle donne. Che cosa può aggiungere la psicoanalisi? La violenza umana non può essere ricondotta a una causa naturale o biologica. La violenza è strutturale. Le leggi servono proprio a stabilire un ordine simbolico là dove la natura tace. Il linguaggio, l’ordine simbolico snatura il biologico, l’istinto. Dunque si tratta di un fenomeno culturale trasversale e multifattoriale che attraversa tutte le fasce d’età, le diverse classi sociali, i diversi ambiti e livelli culturali.
È necessario considerare due aspetti: l’aggressività e la differenza tra i sessi. L’aggressività umana non è un istinto naturale. Jacques Lacan indica che “l’aggressività si manifesta in un’esperienza, che è soggettiva per costituzione” e “l’aggressività si manifesta come intenzione di aggressione e come immagine di dislocazione corporale”. Nel passaggio all’atto aggressivo il soggetto colpisce nell’altro ciò che è diverso, ciò che è estraneo alla propria immagine narcisistica, ciò che il soggetto non è riuscito a integrare nell’immagine unitaria dell’Io. Si palesa il rifiuto della differenza di ciò che è diverso, di ciò che è intimo ed estraneo al tempo stesso.
La famiglia contemporanea é un microcosmo speculare a un macrocosmo sociale, dominato dal l’angoscia della perdita. Infatti spesso si legge di stragi familiari dove l’angoscia di perdita si realizza in una totale cancellazione degli oggetti d’amore, compreso se stesso. L’atto violento dunque non è da concepire solo come condotta da correggere, disfunzionale a una realtà sociale e familiare. Si vede bene come le politiche educative-correttive spesso falliscono. L’atto violento si ripete, insiste se non si reperiscono le significazioni inconsce che lo determinano, nella logica del caso per caso. La differenza tra i sessi implica una dissimmetria strutturale e irriducibile.
E’ necessario dunque eliminare qualsiasi ideale di simmetria e complementarietà tra i sessi per sostenere la differenza che il femminile introduce in ogni legame sociale. La psicoanalisi rifiuta e condanna qualsiasi forma di violenza nella misura in cui rispetta e accoglie la parola dell’altro. Nella nostra esperienza con le donne vittime e i bambini vittime e/o testimoni di violenza, è stata la parola delle donne e dei bambini a suggerirci la necessità di lavorare con gli uomini violenti. In particolare la richiesta e il desiderio dei bambini di incontrare il padre.
L’uomo così detto violento è anche un marito, un padre. Dunque trattare l’autore di violenza vuol dire proteggere le vittime, agire sul legame sociale, sul legame familiare. La causa della violenza si annoda alla verità. Verità che possiamo declinare su tre livelli: la verità sociale etichetta il carnefice, la verità giuridica nomina il reato, sanziona la colpa, la verità soggettiva invece va a toccare l’identità di uomo-marito-padre. C’è uno scarto irriducibile tra i tre livelli. E sarà nell’ascolto orientato dalla psicoanalisi disgiungere la colpa giuridica dalla responsabilità soggettiva, far cadere l’etichetta del carnefice, cogliere la causa psichica, reperire nella storia di ciascuno, uno per uno, le coordinate che hanno determinato la scelta inconscia dell’atto violento.
La clinica psicoanalitica ci insegna che non c’è una risposta universale, c’è qualcosa di incomprensibile, fuori senso che abita la pulsione. Dietro la violenza alberga un sapere sconosciuto al soggetto, un sapere che va al di là della Legge, della Giustizia, dell’educazione. Questo sapere, se viene messo in luce, può indicare al soggetto la causa profonda che l’ha spinto all’atto violento. E il soggetto spesso stenta a riconoscersi di fronte all’orrore dell’atto.
L’emergere del senso di colpa, prezioso per la psicoanalisi, sarà il primo passo verso l’assunzione della responsabilità. È proprio questa assunzione di responsabilità dell’atto che può ridurre il rischio di recidiva. Dunque non è sufficiente attuare programmi educativi universali e protocolli standardizzati per interrompere il ciclo della violenza. Di fronte all’impossibile della pulsione, bisogna ricordare che ogni storia di violenza é particolare.