Puntiamo sulla formazione, a patto che sia chiaro che nel mondo che verrà sarà tutto da rifare (compreso cosa e come imparare). Non sfuggiamo al nostro ruolo di accompagnatori, sapendo che l’esperienza acquisita nel mondo precedente non ci garantirà autorevolezza scontata in quello futuro. E, soprattutto, facciamo un’alleanza coi giovani perché il mondo del futuro sia costruito tenendo conto di come lo immaginano loro. evitare il sentimento di abbandono e stringere i legami necessari per superare la crisi insieme. Questo il messaggio trasversale con il quale noi, impegnati nella vita associativa, dobbiamo attraversare il guado di questo momento storico

Tra le conseguenze della pandemia c’è l’aver accolto due ragazze in più in servizio civile internazionale. La situazione contestuale non permetteva loro di raggiungere la sede prevista, e abbiamo optato per inserirle in Francia. Parto da qui, perché la mobilità nonostante la follia della situazione non si è arresa. I nostri giovani ove possibile viaggiano e ove non è possibile pianificano di viaggiare. Dove è possibile accogliere stagisti, studenti, si fa. Dove non è possibile si prova da remoto (con la possibilità che questo «remoto» metta pochi chilometri o migliaia dal potenziale luogo fisico di incontro).

La tenacia con cui chi è motivato pervicacemente a non mollare resiste è commovente, ma l’indeterminatezza del futuro, dei piani da poter fare plana come un’incognita che appanna le certezze ogni tanto vela lo sguardo. Non c’è una soluzione miracolosa per sopravvivere a questo periodo di pandemia, ma certamente servono due ingredienti congiunti : approfittare di questo tempo per un lavoro in profondità sul proprio orientamento di vita (sui valori esistenziali, sugli obiettivi professionali, sulla comprensione dei propri punti di forza e sulla capacità di riannodare i fili della forza del collettivo) e poter contare su pilastri di comunità che allunghino una mano, con una presa salda, ad indicare che ci sarà anche un dopo.

Siamo arrivati a questa crisi con un sistema già boccheggiante. Per i nostri corpi intermedi, ma più in generale per l’idea di lavoro e società. Puntiamo sulla formazione, a patto che sia chiaro che nel mondo che verrà sarà tutto da rifare (compreso cosa e come imparare). Non sfuggiamo al nostro ruolo di accompagnatori, sapendo che l’esperienza acquisita nel mondo precedente non ci garantirà autorevolezza scontata in quello futuro. E, soprattutto, facciamo un’alleanza coi giovani perché il mondo del futuro sia costruito tenendo conto di come lo immaginano loro.

Per questo, permettetemi di chiedervi di non terminare questo articolo senza aver prima aderito alla campagna «Uno non basta». Una settantina di associazioni giovanili ha usato questi mesi di lockdown per creare una rete capace di creare un impatto, facendo brainstorming tematici e consegnando un Piano Giovani 2021 che possa farci da bussola nella pianificazione del futuro.

Lo hanno fatto giovani in Italia come all’estero, e questo sforzo inedito è nato proprio nel periodo del primo lockdown, quando lo spaesamento avrebbe potuto bloccare la creatività anziché aumentarla, far alzare i muri anziché creare connessioni.

La nostra associazione ha la fortuna di avere molte risorse giovani da attivare e accompagnare, ed è per questo che ho voluto condividere questo spazio con la voce di alcuni di loro, per una testimonianza che si allarghi direttamente alla loro prospettiva.

La crisi generata dal Covid-19 ha messo a nudo un sistema di carenze strutturali i cui effetti ricadono sul futuro delle nuove generazioni, soprattutto in relazione all’entrata sul mercato del lavoro, fermandone la mobilità che fino a questo momento ha rappresentato spesso, una via d’uscita allo stallo di livello regionale e nazionale di molti paesi”. Dice Michela di Marco, delle ACLI di Toronto, che propone una lettura diversa dell’acronimo che ci lega: “Nella sigla della nostra Associazione, ACLI, vorrei leggere anche quattro elementi che devono ispirare le nostre azioni: ambizione, coraggio, lavoro, iniziativa. I giovani devono essere ambiziosi, capire che sognare in piccolo o in grande costa esattamente lo stesso, e quindi sognare in grande, anche se spesso richiede enormi sacrifici. Dobbiamo essere coraggiosi: la paura, il timore della sconfitta, il senso di smarrimento, seppur legittimi, devono spingerci a reagire, a trovare soluzioni, a tentare. Il lavoro che è scarso, talvolta un privilegio, elitario, rimane un diritto, di tutti, quindi dobbiamo imparare a inventarlo, reinventarlo, crearlo.  Per questo motivo, si ha bisogno di iniziativa: un’iniziativa che deve racchiudere l’intraprendenza, la conoscenza, l’innovazione. I giovani possono farcela, perché sebbene fermi fra quattro soffocanti pareti di una stanza, sono capaci di essere ‘mobili’, di testa, di abbattere gli spazi con visione e ingegno. Alle istituzioni, il dovere di investire, spendere in formazione: le risorse investite oggi, sono guadagni nel futuro più prossimo, in termini di avanzamento, ricerca, occupazione, competitività”.

Il Covid-19 ha intaccato l’attrattività delle esperienze all’estero per studio o per lavoro? La risposta che dà una ricerca realizzata da Ipsos per l’Agenzia nazionale per i giovani sulla base di 1.200 interviste a cittadini dai 14 ai 35 anni residenti sul territorio nazionale è: «decisamente no».

Salvo Buttitta, delle ACLI Svizzere, vuole ricordare questi dati. “L’80% dei giovani si dichiara disposto a fare un’esperienza di minimo un mese all’estero, consapevoli soprattutto del fatto che andare a studiare o a lavorare all’estero è un’opportunità imperdibile per confrontarsi con altre culture e fare nuove esperienze fondamentali per la propria crescita e spendibili poi sul mercato del lavoro. Credo che sia giunto il momento che l’Unione Europea dia una risposta comune a questa esigenza, con politiche a sostegno della mobilità giovanile, perché nonostante la pandemia abbia smorzato i sogni e i desideri, c’è un profondo bisogno di scoprire e di conoscere, di abbattere muri e barriere, di costruire ponti, un ancestrale bisogno di movimento“.

Effettivamente, per chi è alle soglie dell’ingresso nel mondo del lavoro è più dura. “Quello che molti di noi provano in questo momento è un senso di ingiustizia per le disparità che subiamo soprattutto in merito alla mobilità“, dice Matteo Moretti (nella foto), che sta effettuando uno stage in un’Ambasciata straniera dalla sua casa a Civitavecchia. “Mentre noi giovani siamo a casa e limitiamo, come è giusto che sia, ogni spostamento per proteggere i più vulnerabili a questo virus, le persone che occupano posizioni più consolidate delle nostre riescono – o sono costrette pur non volendolo – a spostarsi per lavoro. Nel periodo dell’inserimento nel mondo del lavoro, quando i rapporti umani sono ancor più importanti che in altri momenti per la nostra futura vita professionale, rinunciamo alla dimensione fisica dei nostri tirocini, del servizio civile o delle nostre prime esperienze di lavoro. Al tempo stesso, persone più grandi di noi che sono già inserite nel mondo del lavoro riescono a muoversi e a viaggiare – o quantomeno a recarsi in ufficio – anche nei casi in cui non vorrebbero farlo ma sono costrette per motivi di necessità.  Questo senso di ingiustizia rischia di alimentare lo scontro generazionale di cui si parla tanto e che spesso non esisteva nemmeno, ma che adesso, complici anche la mancanza di empatia e l’assenza di prospettive di investimento sui giovani, sta diventando una profezia che si auto-avvera”.

Se le dinamiche finali saranno percepibili solo a pandemia conclusa, Sara Fonsato (nella foto), incaricata per lo sviluppo associativo delle ACLI nella regione francese del Rodano Alpi, ha osservato da vicino come il movimento migratorio degli italiani sia cambiato nel 2020, a seguito e a causa della pandemia credo in due modalità. “In primo luogo, ha spinto chi non era ancora partito a farlo, per l’aggravarsi della crisi economica già ben presente in Italia, in secondo luogo ha fatto rientrare definitivamente coloro che non erano riusciti in quello che mi piace definire il «sogno migratorio”. Con questa espressione voglio definire quella voglia di riscatto e di condizioni di vita migliori che l’estero sembra offrire.

Gli italiani invece già residenti all’estero da molti anni (iscritti o non all’AIRE) hanno vissuto momenti di confusione rispetto ai vari decreti ministeriali, che hanno dimenticato o citato in modo confuso gli italiani residenti all’estero, considerati come turisti. Questo ha portato moltissimi a decidere di restare negli Stati di adozione, soprattutto coloro che provengono dal centro e/o dal sud Italia, a causa degli scarsi collegamenti o della necessità di attraversare diverse regioni. Questa situazione ha acuito ancora di più un sentimento già molto forte di abbandono e di indifferenza da parte del governo rispetto a chi non viaggia solo per piacere ma per necessità. Credo sia necessario far capire che la questione migratoria è da prendere realmente in considerazione, e smetterla di non vedere che la migrazione va tutelata, studiata e valorizzata, attraverso una burocrazia più flessibile ed efficace.”

Evitare il sentimento di abbandono e stringere i legami necessari per superare la crisi insieme. Questo il messaggio trasversale con il quale noi, impegnati nella vita associativa, dobbiamo attraversare il guado di questo momento storico. Il Centro Altreitalie, che in autunno ha pubblicato la prima ricerca sull’impatto del Covid nelle dinamiche migratorie degli italiani, ci consegna un quadro estremamente chiaro: chi ha già una stabilità personale e professionale si prende la briga di rispondere ai questionari, gli altri non è un questionario che li coinvolge, ma una presenza concreta, un’intermediazione, uno sportello o un telefono da chiamare. Quello che le ACLI fanno all’estero e che devono continuare a fare, con anche maggior impegno, per non lasciare nessuno indietro.

Tags:
Ti è piaciuto questo articolo? Condividilo!

FACEBOOK

© 2008 - 2024 | Bene Comune - Logo | Powered by MEDIAERA

Log in with your credentials

Forgot your details?