Le generazioni italiane che si sono affacciate alla vita attiva nel nuovo secolo nel nostro Paese si sono trovate di fronte ad un grado crescente di complessità e incertezza del mondo del lavoro senza un potenziamento degli strumenti utili per essere ben orientate, adeguatamente preparate, efficacemente inserite e valorizzate nel sistema produttivo. Siamo così cresciuti meno degli altri e abbiamo anche depotenziato le energie e le intelligenze nuove da mettere a servizio di una crescita solida e competitiva presente e futura.
Son ben noti i dati Istat e Eurostat che documentano come l’Italia presenti una delle percentuali più elevate in Europa di dispersione scolastica, oltre che una delle percentuali più basse di chi arriva a laurearsi. A parità di livello di istruzione, più deboli risultano le competenze di base e avanzate. Queste fragilità formative, assieme alla carenza di servizi efficienti di riqualificazione e di incontro tra domanda e offerta, stanno alla base anche del record italiano di NEET, ovvero di under 35 che non studiano e non lavorano. Inoltre, chi è ben formato ed ha elevato titolo di studio si trova con alto rischio di overeducation (ovvero di svolgere un lavoro che richiede livelli più bassi rispetto alla propria formazione). Per molti di tali giovani la decisione è tra rassegnarsi a non dare il meglio di sé in questo paese o provare a cercare migliori opportunità in un altro paese.
Questo intreccio di vulnerabilità e di carenza di valorizzazione frena anche le scelte di autonomia e responsabilità nell’accesso all’età adulta. Siamo di conseguenza anche il paese in Europa con maggior posticipazione dell’età in cui si ha il primo figlio e con più ridotta progressione verso il secondo. Negli ultimi dieci anni è inoltre cresciuto anche il rischio di povertà degli under 35 con figli rispetto alle famiglie composte da over 65.
L’impatto della pandemia rischia di rendere ancora più fragile questo quadro. Il rapporto steso dal Gruppo di esperti Demografia e Covid-19 (“L’impatto della pandemia di Covid-19 su natalità e condizione delle nuove generazioni”) per il Dipartimento per le politiche della famiglia, riporta i dati di varie ricerche internazionali che mostrano come l’uscire dal percorso formativo in una fase di aumento della disoccupazione abbia un effetto di amplificazione delle difficoltà di inserimento pieno nel mondo del lavoro, con ricadute su percorsi professionali e salari.
Le crisi economiche tendono, infatti, a colpite maggiormente le nuove generazioni ma è proprio su di esse che maggiori sono anche le conseguenze negative di medio e lungo periodo. Le evidenze disponibili mostrano come, in generale, i più colpiti nel mercato siano stati i lavoratori con contratti a tempo determinato e autonomi, dove maggiore è la presenza di giovani. Si sono, inoltre, accresciute le difficoltà a trovare lavoro per chi era alla ricerca del primo o di un nuovo impiego. I dati Istat di novembre 2020 rispetto allo steso mese del 2019 confermano come il più forte calo di occupazione si sia registrato tra i giovani-adulti: il tasso di occupazione in età 25-34 anni è sceso a 61,1% (-2,2 punti) consolidandosi sui valori più bassi in Europa.
L’impatto economico e sociale della crisi sanitaria rischia di essere particolarmente grave soprattutto nel nostro paese che già – come documentato nelle varie edizioni del “Rapporto giovani” dell’Istituto Toniolo – partiva da condizioni di maggior difficoltà e fragilità rispetto alla media europea. In particolare il tasso di NEET tra i 25 e i 34 anni era attorno al 23% nel 2008 all’inizio della Grande recessione e risultava vicino al 29% nel 2019 (mentre la media Ue-27 era pari al 17,4% nel 2008 e al 17,3% nel 2019).
In carenza di risposte efficaci di policy, soprattutto per chi ha meno risorse socio-culturali di partenza, il rischio è quello di una revisione strutturale al ribasso delle proprie aspettative e dei propri obiettivi futuri. Ne consegue un indebolimento del contributo che le nuove generazioni possono dare, passata l’emergenza, ad una nuova fase di crescita economica e di vitalità demografica nel territorio in cui vivono. Un meccanismo già riscontrato dopo la Grande recessione del 2008-13, che ha visto un periodo di continua riduzione delle nascite.
I dati dell’Osservatorio giovani raccolti in due indagini ad hoc condotte a fine marzo e a fine ottobre 2020 mostrano come i giovani italiani siano tra i più preoccupati in Europa rispetto all’impatto della pandemia sui propri percorsi lavorativi e sui progetti di vita (“Giovani ai tempi del coronavirus”, Quaderni Rapporto Giovani, n. 8, 2020). Emergono però anche segnali incoraggianti. Sul piano personale si riscontra in molti giovani la voglia di reagire positivamente, di guardare oltre i limiti della normalità passata, assieme ad una maggiore propensione a contare su sé stessi e sugli altri, a far fronte ai cambiamenti e a riconoscere nuove opportunità. Rispetto al sistema Italia i giovani intervistati intravedono un possibile impulso positivo sull’attenzione verso la salute collettiva ma anche sul fronte delle competenze digitali, dell’innovazione tecnologica e della green economy. Si tratta di temi sentiti vicini e propri dalle nuove generazioni, forte è quindi anche il desiderio e l’aspettativa di essere coinvolte come parte attiva di una nuova fase di crescita del Paese.
Uno dei segnali più interessanti in questa direzione è la mobilitazione dei giovani stessi che ha portato alla campagna #unononbasta, frutto di un percorso che è arrivato a proporre un position paper da parte di una rete ampia di associazioni giovanili, con il fine di potenziare le proposte del Piano nazionale di ripresa e resilienza del Governo sulle voci che riguardano il ruolo attivo delle nuove generazioni.
Al di là dei livelli attuali di disoccupazione e sottoccupazione quello che pesa sui giovani, infatti, è soprattutto il non sentirsi inseriti in processi di crescita individuali e collettivi, ovvero inclusi in un percorso che nel tempo consenta di dimostrare quanto si vale e di veder riconosciuto pienamente il proprio impegno e il proprio valore (indipendentemente dal genere, dalla famiglia e dal territorio di provenienza).
Per rilanciare il paese dopo lo shock subìto con la pandemia di Covid-19 è allora necessario ripartire da ciò che la demografia mette al centro del cambiamento, ovvero il rinnovo generazionale, sia quantitativo che qualitativo. Le grandi risorse messe in campo per rispondere all’emergenza devono, in questa prospettiva, diventare anche parte di un progetto di riorientamento degli investimenti sulle scelte che accompagnano e rafforzano l’entrata qualificata e la presenza solida dei giovani nei processi di sviluppo sociale ed economico del paese.
Non è però solo questione di quantità di spesa e nemmeno di una singola misura (sulle azioni più urgenti rinvio al mio capitolo su giovani e lavoro nel Rapporto CNEL “Mercato del lavoro e la contrattazione 2020”), ma di un approccio nuovo da mettere alla base di un sistema integrato di politiche davvero trasformative, ovvero in grado di fare la differenza nel promuovere in modo attivo il percorso personale dei giovani, perché i giovani stessi possano poi fare la differenza sul percorso di crescita del Paese.
Per adottare questa prospettiva è, in particolare, necessario: a) chiarirsi bene cosa significa oggi formare bene i giovani e aiutarli a leggere e interpretare la realtà che cambia (ancor più dopo la pandemia); b) metterli nelle condizioni di dotarsi di competenze adeguate e avanzate per farsi parte attiva di tale cambiamento (dentro fuori il mondo del lavoro); c) accompagnare i percorsi di ingresso nel mondo del lavoro con strumenti che aiutino a far incontrare al punto più elevato competenze richieste e competenze formate (aggiornate e riqualificate); d) incentivare all’interno delle aziende e delle organizzazione la valorizzazione del capitale umano specifico delle nuove generazioni aiutandolo a diventare leva per la transizione verde e digitale.
L’investimento sulle nuove generazioni richiede generosità e intelligenza, perché ha bisogno di risorse economiche e intellettuali, ma richiede soprattutto il riconoscimento che ciò che migliora la capacità di essere e fare dei giovani aumenta in prospettiva il benessere di tutti.
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