Per far fronte a tale situazione, le donne dovrebbero lavorare di più e nel contempo fare più figli. Ma qui sta il problema. I figli costano sia per la carenza di servizi sia per una fiscalità non amica delle famiglie. Il lavoro delle donne è in molti casi frammentario e mediamente meno retribuito rispetto al lavoro maschile. Nasce qui una circolarità viziosa. Come indurre le coppie con lavoro precario ad avere figli? Come indurre le madri ad accettare un lavoro il cui beneficio è sovente inferiore ai costi aggiuntivi per crescere i figli? Su queste tematiche si gioca il futuro del welfare nel nostro Paese.
Si parla tanto di conciliazione tra famiglia e lavoro. Nella maggior parte dei casi essa è assicurata dalla donna che sostiene così costi crescenti tanto sull’uno quanto sull’altro fronte. Un lavoro professionale che cresce in complessità, che diventa più esigente, pesante o stressante. Un lavoro di cura che vede progressivamente aumentare le attività da svolgere, i rapporti da tenere con altri soggetti che concorrono a fornire i servizi primari di cui l’unità familiare necessita. Ne consegue che la donna finisce con il rinunciare a dimensioni e tempi propri.
Così stando le cose è quanto mai urgente la ricerca e la progettazione di efficaci interdipendenze tra qualità della vita nella famiglia, nei luoghi della produzione e dell’economia, nel contesto sociale. Occorre riconsiderare il senso del lavoro in rapporto alla famiglia e viceversa, nell’ambito di una relazionalità solidale tra uomo e donna e anche tra genitori e figli. Si impongono soprattutto mentalità e culture rinnovate e diverse in grado di dar vita a nuovi comportamenti, strutture, modalità organizzative.
Non mancano i segnali che ci dicono che è possibile procedere in tale direzione. Ciò a partire da alcuni dati di fatto dai quali non si può prescindere. Una prima constatazione. Le donne lavorano e intendono lavorare di più (e meglio). La partecipazione femminile al mercato del lavoro è aumentata in tutti i paesi europei. Una seconda constatazione. Le donne non solo tendono a lavorare di più ma lo fanno con un bagaglio di conoscenze, competenze, abilità, con uno “stock di capitale umano” superiore a quello degli uomini. Una comprova è rappresentata dagli elevati livelli di scolarizzazione raggiunti dalle donne e in particolare dalle giovani donne che hanno superato, in questo campo, i loro colleghi maschi.
La terza constatazione è rappresentata dalla consapevolezza che le diseguaglianze tra uomini e donne che ancora sussistono nell’ambito dei lavori e delle professioni sono del tutto inaccettabili. L’eliminazione del divario di genere favorisce la crescita complessiva dell’economia. Da uno studio condotto dall’economista svedese Asa Lofstrom per conto della Commissione Europea risulta che una reale parità sul fronte dell’occupazione tra uomo e donna farebbe crescere il prodotto interno lordo della Comunità del 27%. Per quanto riguarda il nostro Paese l’aumento sarebbe di ben il 32%.
Dall’esperienza faticosa e sofferta delle donne, specie nel nostro Paese, deriva oggi un messaggio fondamentale che va colto in tutta la sua portata. Intendiamo riferirci alla volontà di conciliare il ruolo di moglie, compagna, madre con la valorizzazione piena dei propri talenti nel più ampio contesto del lavoro extradomestico e anche dell’impegno civile. Attraverso l’esperienza e la cultura delle donne è possibile una reinterpretazione del lavoro in rapporto alla famiglia e alla società. Ci si rende conto che tematiche e valori ritenuti “femminili” diventano strategici per tutti. Il mondo del lavoro richiede umanizzazione, ricomposizione di aspetti e dimensioni per lungo tempo separati, attenzione alle attese della gente e dell’ambiente, sintonia con i valori della vita privata e sociale.