Il 18 febbraio di trent’anni fa si stipulava il nuovo Concordato tra Chiesa e Stato italiano, rinnovando l’accordo dell’11 febbraio 1929. Sembra passata un’epoca. E chissà chi si ricorda, perché la politica italiana ha decisamente affievolito il suo interesse verso una compiuta politica ecclesiastica. Ed è un peccato, visto che essa si occupa di una serie di questioni che non sono affatto laterali. Anche solo un elenco generico ci fa ricordare l’insegnamento della religione cattolica nelle scuole e le scuole paritarie cattoliche; l’immenso patrimonio di beni artistici e culturali e il turismo religioso; la congrua, ovvero il sostentamento del clero, e la regolamentazione dei beni ecclesiastici; il matrimonio concordatario e il diritto di famiglia. Di ricaduta il Concordato tocca poi il rapporto verso le altre religioni, con tutto il potenziale simbolico che questo significa.
In tutte le vicende della politica e della società italiana i politici di qualche anno fa (Pci compreso) pensavano che trovare un accordo con la Chiesa fosse un bene comune. Gennaro Acquaviva, protagonista di quel periodo, sostiene infatti che non si trattò di un’intesa verticistica, ma di una naturale convergenza che rispondeva ad una grande questione nazionale e ad un grande disegno politico nazionale. Non è un caso che la discussione sugli accordi del 1984 venne parlamentarizzata. Come a dire: non sono solo accordi bilaterali tra due governi (e non si decide a maggioranza).
Questa convergenza diede luogo anche ad una serie di idee e di soluzioni che – per quanto marginali rispetto al grande tema in sé – avrebbero riformato anche il modo di pensare la finanza pubblica. Si pensi all’8×1000, padre del figlio 5×1000 per le onlus (e forse in futuro del nipote 2×1000 per i partiti politici): un’idea che sarà presa a modello anche da altri Stati.
Agostino Giovagnoli sostiene che le cause dell’attuale disinteresse della politica italiana verso le questioni ecclesiastiche hanno più radici. Tra di esse vi è il ruolo certamente meno “interno” della Chiesa rispetto alla stessa politica italiana. Il passaggio da Paolo VI, ultimo “papa democristiano”, a Giovanni Paolo II segnala un minor coinvolgimento della S.Sede verso le vicende del Bel Paese: Giovanni Paolo II, rispetto al suo predecessore, porrà l’accento più sulla dimensione sociale. Secondo alcune visioni il rischio di una maggior distanza tra due soggetti così diversi eppure così necessari potrebbe portare ad una sorta di “gentilonismo”, ovvero ad uno scambio politico utile ma privo di un robusto disegno.
Agostino Giovagnoli sostiene che le cause dell’attuale disinteresse della politica italiana verso le questioni ecclesiastiche hanno più radici. Tra di esse vi è il ruolo certamente meno “interno” della Chiesa rispetto alla stessa politica italiana. Il passaggio da Paolo VI, ultimo “papa democristiano”, a Giovanni Paolo II segnala un minor coinvolgimento della S.Sede verso le vicende del Bel Paese: Giovanni Paolo II, rispetto al suo predecessore, porrà l’accento più sulla dimensione sociale. Secondo alcune visioni il rischio di una maggior distanza tra due soggetti così diversi eppure così necessari potrebbe portare ad una sorta di “gentilonismo”, ovvero ad uno scambio politico utile ma privo di un robusto disegno.
L’atteggiamento della politica italiana verso le cose ecclesiastiche tende ad essere strumentale e rapsodico: si coccolano alcune posizioni con lo scopo di acquisire un consenso elettorale (legittimo ma) di breve respiro. Il tema di fondo, invece, è quale rapporto tra la Repubblica e la Chiesa cattolica può aiutare entrambi a far crescere una “città dell’uomo” oggi più complessa, perché le vicende legate ai mutamenti familiari, sociali (si pensi anche solo all’immigrazione e quindi alla nuove domande di religiosità), economici e culturali richiedono un pensiero dal respiro più profondo. Insomma una rinnovata intesa: un’intesa più congrua.
rn