A livello internazionale dal luglio 2010 i prezzi di molti raccolti sono aumentati drasticamente: mais + 74%, grano + 84%, zucchero + 77% e olii grassi + 57%. Principali fattori: cambiamenti climatici, come siccità o inondazioni (vedi Australia e Russia); restrizioni alle esportazioni; aumento della domanda dei biocarburanti (che ha devoluto la produzione di zucchero in quella direzione provocando l’aumento spropositato dell’alimento a livello internazionale); cause finanziarie; aumento del costo del petrolio che a sua volta genera aumenti di costo per fertilizzanti e trasporti. Chi ci rimette non sono le grandi imprese, le grandi catene di distribuzione o i grandi investitori che traggono profitti dall’aumento dei prezzi, ma tutte le persone vulnerabili dei paesi in via di sviluppo e quelle povere dei paesi sviluppati.
In Italia pastorizia e agricoltura stanno vivendo una crisi senza precedenti. A livello di distribuzione si assiste a nuove forme di concentrazione oligopolistica, e questo provoca svantaggio per gli agricoltori, diminuzione dell’occupazione, ingresso di manodopera immigrata.
Nel 2010 i trattori che hanno invaso l’Italia, i presidi dei palazzi del Consiglio Regionale a Cagliari, le proteste dei pastori sardi “latte a un euro o non si munge più” o le proteste degli agricoltori in Sicilia, rappresentano la denuncia di un’emergenza importante a cui far fronte sia a livello nazionale che europeo.
In Sardegna la produzione annua di latte per capo è di circa 150 litri, per un totale di quattro milioni di quintali, ovvero 700 mila quintali di formaggio. Ma la produzione censita è di circa la metà. I pastori combattono per un prezzo di 0,60. Ma come si può accettare il costo produttivo di un litro di latte se poi viene remunerato con il controvalore di una bottiglia d’acqua? Il prezzo viene dettato dall’acquirente e il latte prodotto in Sardegna viene svenduto. Le aziende di trasformazione e le coperative sono costrette a collocare il prodotto in canali di monopolio, a livello nazionale ed internazionale, ad un prezzo non più alto di 6 €, contrapponendo un costo del latte e costi di trasformazione industriali difficili da sostenere.
In 10 anni sono “morte sul campo” 30mila aziende e quelli che nel settore hanno resistito hanno messo insieme un debito di 800 milioni. Le ingiunzioni di pagamento Equitalia non verranno sospese e la situazione diventa sempre più difficile. Gli specialisti pensano che sia opportuno ridurre drasticamente la produzione di latte ovino in Sardegna e decentrarla ad esempio in Romania e molti imprenditori hanno già investito in questo senso.
E se la pastorizia sarda “muore sul campo”, in Sicilia per l’agricoltura la situazione non è diversa. Metafora crudele di una realtà al collasso. Secondo i dati Ismea, istituto di servizio per il mercato agricolo e alimentare, nel 2009 sono state importate in Italia 113.194 tonnellate di arance (+ 300%). Si tratta di arance provenienti da Spagna, Sudafrica e Francia. Altri prodotti siciliani, oltre alle arance, hanno subito un grave crollo: – 32% per il grano duro, – 35% per l’uva da vino, – 30% la frutta, – 15% gli ortaggi e – 15% la carne, mentre i prezzi di produzione (energia, sementi, concimi, antiparassitari, farmaci veterinari…)sono cresciuti del 31%. Si è tentato di controbilanciare il crollo dei prezzi provocato dalle importazioni, ma a livello interno i farmer market , cioè i piccoli mercatini in cui si vende direttamente dal produttore al consumatore, non decollano. In Sicilia poi si assiste ad assurdi come il fatto che la norma attuativa prevista per combattere le speculazioni (legge regionale n.19 del 2005 che prevedeva l’obbligo di esporre sia il prezzo all’origine che quello finale) non è mai stata pubblicata. Non solo, in questa regione molte aziende agricole subiscono le leggi del raket: estorsioni, usura, macellazione clandestina, sofisticazioni e condizionamento dei mercato ortofrutticoli tramite l’intervento di organizzazioni criminali e mafiose nella filiera agroalimentare sono ancora aspetti da combattere. Ben 29 ispettori regionali sono incaricati di controllare i luoghi di transito da cui arrivano tonnellate di prodotti poi spacciati per siciliani. Ma nel frattempo, secondo la Confagricoltura regionale sono oltre 50 mila le aziende agricole che negli ultimi 5 anni hanno abbandonato il settore. Le richieste degli agricoltori sono volte alla riduzione delle accise su carburanti, riduzione degli oneri previdenziali per la manodopera, riduzione dell’iva sui fattori di produzione e delle aliquote relative alle nuove strutture realizzate all’interno di un piano di sviluppo rurale. Anche l’acqua rappresenta un problema in alcune zone dell’isola dove, per attivo funzionamento dei consorzi di bonifica, gli agricoltori non possono usufruire di invasi pieni d’acqua, sopperendo con spese ulteriori al fabbisogno della loro zona agricola.
Chi si occupa da vicino del problema lamenta la scarsa preparazione manageriale delle maestranze che gestiscono il settore nei confronti del mercato.
Un rapporto redatto da Lucia Wagner (senior economist per lo sviluppo e consulente indipendente) e Gine Swart (senior policy advisor Oxfam Novib) intitolato “chi nutrirà il mondo?” (Oxfam Novib) dimostra che quando si parla di produzione agricola la politica è più importante della storia e della geografia. Esso sostiene che i grandi investitori privati dovrebbero puntare ad integrare i loro patrimoni con quelli delle comunità locali e dei piccoli agricoltori nell’ottica di una crescita consapevole e sostenibile, piuttosto che acquisire terreni su cui speculare per il profitto e si raccomanda che a livello politico si abbia una visione a lungo termine ponendo attenzione al coinvolgimento degli attori principali nelle consultazioni per scelte tecnologiche e innovazioni, nel sostegno dei piccoli agricoltori per favorire l’adozione di metodi agricoli sostenibili e potenziare un quadro normativo che incoraggi l’organizzazione e migliori la produttività.
Non esiste un governo della sicurezza alimentare globale e questo favorisce le scelte neoprotezioniste di vari paesi. Invece occorre affrontare l’agricoltura con un approccio sistemico.
Occasione per modificare incisivamente l’attuale situazione è la prossima riforma della PAC (politica agricola comune), la cui approvazione è prevista per il 2012 e l’entrata in vigore nel 2013.
Nel documento “Strategy Europe-2020” si parla di promuovere un’economia più efficiente sotto il profilo delle risorse, più verde e più competitiva. Dunque la politica per i sistemi agricoli e alimentari UE deve necessariamente integrarsi con altre politiche dell’Unione Europea che abbraccino l’ambiente, la politica energetica, la salute, le politiche regionali, la difesa dei consumatori. Occorre uscire dalle lobby agricole per un confronto su temi integrati: occupazione, ricerca, ambiente, sicurezza alimentare, salute e consumi, politica forestale, energetica, concorrenza e politiche regionali non possono essere disgiunte.
Il 22 Agosto del 2011, il primo Forum Europeo per la Sovranità Alimentare, tenutosi a Krems, in Austria, dove si sono riuniti più di 120 organizzazioni del settore e dove erano presenti 400 delegati da 34 Paesi europei, ha dato la parola ai giovani e ai molti produttori del settore, molto preoccupati e poco ascoltati dalla politica nazionale. Ne è emersa una dichiarazione che proclama: "Siamo convinti che un cambiamento al nostro sistema alimentare sia un primo passo verso un cambiamento più ampio nella nostra società". Così, i delegati del Forum si sono impegnati a prendere il sistema alimentare nelle loro mani attraverso il seguente Piano d’azione in 5 punti:
– lavorare per la costruzione di un modello di produzione e consumo del cibo ecologicamente sostenibile e socialmente giusto, basato su un’agricoltura non industriale e di piccola scala, e su sistemi di trasformazione e distribuzione alternativi;
– decentrare il sistema di distribuzione degli alimenti e accorciare la filiera tra produttori e consumatori;
– migliorare le condizioni di lavoro e gli aspetti sociali del lavoro, in particolare nel campo dell’agricoltura e della produzione di cibo;
– democratizzare il processo decisionale sull’uso dei beni comuni (terra, acqua, aria, saperi tradizionali, sementi e bestiame);
– assicurarsi che le politiche pubbliche, a tutti i livelli, garantiscano la vitalità delle aree rurali, prezzi equi per i produttori di cibo e alimenti sicuri e OGM-free per tutti.
I leader politici hanno ammesso il fallimento del G8 rispetto alle promesse fatte di dimezzare la povertà nel mondo entro il 2015. Occorre trasformare la retorica in azione. C’è chi sostiene che occorrerebbe una convenzione internazionale vincolante a livello giuridico affinchè i governi abbiano l’obbligo di rendere conto della loro incapacità di affrontare il problema della fame, in un mondo in cui esistono i mezzi per farlo. Non ci può essere futuro se non c’è formazione, etica e culturale dei nostri politici, e la spesa per l’agricoltura, è dimostrato, paga i dividendi in termini di riduzione di povertà e disuguaglianza.
Stiamo assistendo ad una profonda trasformazione nell’agricoltura. Apertura dei mercati, nuovi e potenti concorrenti, nuovi consumatori e consumatori con nuovi bisogni hanno via via mutato gli assetti e causato gravi squilibri. Neuroscienze, nanotecnologie, genetica e TCI offrono possibilità produttive gestibili su vasta scala integrando i principi di convenienza e di adattabilità dei prodotti alle esigenze di mercati e consumatori.
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