Quello che siamo diventati nel corso della nostra crescita ha due punti di partenza ineludibili: il patrimonio più o meno ricco di esperienze, vissuti, affetti che abbiamo ereditato dai nostri genitori e dalle generazioni precedenti; il conflitto che è la dimensione costitutiva della nostra esistenza.
Cresciamo sotto l’influsso dell’azione educativa di coloro che si prendono cura di noi. Nel migliore dei casi, costituiscono per lungo tempo un punto di riferimento solido e sicuro nonostante i loro errori e le incertezze, fino al momento, necessario, in cui stanno lì essenzialmente per essere attaccati, destinatari di bordate improvvise e micidiali. Se abdicano al loro ruolo è un guaio per tutti. Quando la tempesta conosce non la fine, ma l’alternanza sempre più consolidata con momenti di bonaccia, allora vuol dire che quell’essere così tanto desiderato, coccolato, odiato in certi momenti, si avvia a diventare una persona capace di stare dentro la complessità del mondo, di accettarne le contraddizioni, di impegnarsi a trasformarlo nei limiti delle proprie possibilità.
Possiamo dire, dopo questo breve preambolo, che andiamo avanti e maturiamo, si spera, avendo a che fare con situazioni traumatiche più o meno pesanti, dove la pesantezza è dovuta non solo all’entità dell’evento o degli eventi traumatici, ma da come siamo internamente e soggettivamente “attrezzati” nell’interazione articolata e complessa tra conscio ed inconscio.
Naturalmente i valori della fraternità, della solidarietà, dell’amicizia, danno sapore alla vita, consentono di dare concretezza a quel tratto fondamentale dell’essere umano che è la relazionalità.
Questo non deve farci dimenticare che – per nostra costituzione – non siamo in grado in certi frangenti di fronteggiare sempre e comunque situazioni in cui siamo continuamente esposti a situazioni angoscianti e mortifere. Dobbiamo tener conto che la nostra psiche per difendere il nostro benessere mette in atto una serie di di operazioni difensive: rimozione, dissociazione, scissione, proiezione, negazione, sono alcune di esse. E’ come se avessimo bisogno di ricacciare lontano dalla nostra consapevolezza, di smembrare, di spostare fuori di noi, di “dirci che tutto andrà bene, che noi siamo forti”, pezzi di realtà che ci turbano, ci inquietano, e a volte si depositano senza che ce ne rendiamo conto e “lavorano” inconsciamente dentro di noi e s’affacciano nei nostri atti mancati, nei lapsus, nei nostri sogni.
E poiché dentro di noi non si perde nulla, vivere situazioni traumatiche inedite non esclude la riattivazione di condizioni traumatiche pregresse, visto che l’apparato psichico ha nella dinamica tra dentro e fuori, presente e passato, una delle sue principali caratteristiche.
In poche parole, anche il più motivato degli uomini, il più ancorato ai valori più nobili, deve tenere in grande considerazione che la fragilità gli appartiene, che vive dentro un equilibrio instabile.
Non è mai stato tempo di superuomini. C’è un episodio nelle Scritture bibliche, raccontato nei Vangeli (Luca 10:29-37) in cui un uomo, mentre percorreva la strada da Gerusalemme a Gerico venne aggredito dai briganti che lo percossero, lo derubarono di quel che aveva e lo abbandonarono steso per terra. Di là passava un uomo, che non volse lo sguardo da un’altra parte come avevano fatto altri due prima di lui, anzi. Per prima cosa vide la grande sofferenza di quell’uomo, la sua impotenza. Si avvicinò e si chinò su di lui per guardarlo meglio. La prima cura fu, dunque, uno sguardo attento, accogliente. E poi lo prese tra le sue braccia, gli fasciò le ferite, versandovi olio e vino. Chissà cosa si dissero. Poi, caricatolo sopra il suo giumento, lo portò in una locanda e continuò ad avere cura di lui. Condivise la sua umanità, il suo saper fare, il suo tempo.
Il giorno seguente, estrasse due denari e li diede all’albergatore, dicendogli :”Abbi cura di lui e ciò che spenderai in più, te lo rifonderò al mio ritorno”. In fin dei conti vide nel malcapitato una parte di sè: s’identificò, non scisse, non espulse, né negò, e dopo avergli prestato le prime cure lo affidò a quelle di un altro, perché quell’uomo aveva bisogno di altro, e lui non poteva darglielo. E poi doveva proseguire il viaggio. Insomma si coinvolse, senza fondersi con un eccesso d’identificazione,e se ne andò assicurando all’albergatore che lo avrebbe risarcito, al suo ritorno, delle spese sostenute. Possiamo dire che, oltre al messaggio di fraternità che questa parabola trasmette, sembra esserci anche quello che, da soli, e senza l’ancoraggio ad uno stringente principio di realtà, non si fa una lunga strada e che è necessario avere il senso del proprio limite.
Poco più di mille e settecento anni dopo questo racconto, è nata una scienza, la psicologia, che nelle sue diverse articolazioni ha insegnato e continua ad insegnare che il valoriale, lo spirituale sganciati dalle leggi dello psichico fanno di un individuo una persona disarmonica e dannosa per sé e per gli altri; che impegnarsi nelle relazioni d’aiuto, in qualsiasi ruolo e funzione, professionista o meno, significa innanzitutto considerarsi uomo ferito che, si spera, abbia “guardato” le ferite che ha dentro, facendosene carico per poter prendersi cura delle ferite dell’altro. Non si può improvvisare nulla e non si tratta soltanto di imparare tecniche di aiuto.
Se tutto questo è vero nell’ordinario, allora lo è a maggior ragione per affrontare il durante e il dopo di una situazione traumatica, come quella che molti operatori impegnati nelle relazioni di aiuto a tutti i livelli, stanno vivendo in queste durissime settimane di pandemia. Bisogna costituire “luoghi di ascolto e confronto”,accanto a quelli già in essere (supervisioni, consulenze psicologiche, psicoterapie individuali e di gruppo) affidandosi a professionisti capaci e competenti per dare parola ai vissuti e renderli pensabili per provare ad elaborarli; per ridare nuova linfa alla speranza che qualcuno ha paragonato ad una bambina e come tutti i bambini ha bisogno, per crescere, di essere sostenuta e accompagnata.
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