Proponiamo un’intervista a Padre Francesco Occhetta, giornalista de «La Civiltà Cattolica», che coordina dal 2009 il cammino di formazione alla politica “Connessioni”. Dal 2018 è inoltre direttore didattico dei Corsi in Dottrina sociale della Chiesa della Fondazione vaticana Centesimus annus pro Pontifice. L’intervista è stata realizzata da Fabio Cucculelli.

Cosa significa per un’organizzazione di Terzo Settore, come le Acli, andare ad un Congresso. È ancora un valore in un momento storico in cui l’associazionismo di fatto è fluido e tende a ragionare sul breve periodo? Quali sono le sfide di medio periodo per le organizzazioni della società civile?
Significa celebrare la vita democratica e la vita di fede che ha scelto di farsi comunità. Avete una grande storia che aiuta tutti a guardare al futuro. Con una sfida grande però, quella di essere fedeli alle proprie radici senza riproporre i rami secchi come soluzioni nuove. Mi spiego meglio. Se associazioni come la vostra si sono fondate sulla partecipazione e l’identità, oggi sono chiamate anche a costruire “comunità”. Quest’ultima deriva dal prefisso “con”, rimanda all’unione, mentre “la partecipazione”, è relativa alla “parte”, implica una potenziale divisione. E questo modo di stare insieme è andato in crisi. Ma cosa altro è la comunità se non appunto una con-divisione tra diversi in un medesimo progetto? Solo attraverso uno scavo al fondo delle vostre parole anche il concetto di popolo, strumentalizzato dal lessico populista, ritroverà il suo significato più autentico che in concreto per voi sono la qualità dei servizi che offrite ai territori e alle persone

Come ha visto negli Orientamenti per il 26° Congresso nazionale delle ACLI si fa riferimento ad uno strappo tra politica e democrazia alimentato da alcune derive della comunicazione (predominio dei social, politica ridotta a twitt) e da forme di populismo/sovranismo che semplificano la realtà sociale e politica? Quali potrebbe essere le leve per invertite questa tendenza? Come reintrodurre una comunicazione che tenga conto della complessità del reale?
Sì, è in corso un cambiamento radicale dovuto alla disintermediazione che ha coinvolto anche la comunicazione, per questo oggi nelle campagne elettorali la voce di bilancio più alta è la comunicazione. Il punto è proprio questo: a cosa dobbiamo resistere e per quale ragione essere “presidi di coscienza sociale e democratica”? Non possiamo negarlo, la paura e il panico sono spesso alimentati da un giornalismo confuso e impreciso, obbediente ad alcuni spregiudicati editori o in competizione con alcuni pericolosi comunicatori. Lo stillicidio dei numeri fa dimenticare le storie, i nomi, i volti e le ragioni sociali che tengono insieme una comunità politica. Una buona comunicazione politica deve ritrovare un equilibrio nella cura di tre aspetti: ciò che comunichiamo è un comunicarsi; l’uso e la scelta delle parole modellano il mondo che vogliamo costruire; occorre stare in rete e condividere molte altre voci che guardano verso lo stesso orizzonte per costruire insieme una casa comune, vigilare sulla memoria storia, controllare fonti e riporre fiducia al giornalismo affidabile.

La sfiducia dei cittadini verso le istituzioni democratiche – evidente indicatore di questo strappo (tra politica e democrazia) – che oggi sembrano essere sotto attacco su due fronti: quello dei cittadini e degli esponenti politici. Che ruolo hanno le alte cariche dello Stato in questo momento? Quando la politica non riconosce più le istituzioni (ed il ruolo dei corpi intermedi) cosa succede? Cosa si può fare? Come uscire da questa situazione?
Nei sistemi democratici la politica funziona se i cittadini partecipano e sono responsabili gli uni degli altri; anche quando le classi politiche rimangono popolari senza diventare aristocratiche rinchiudendosi in una sorta di oligopolio di categoria. Le alte cariche dello Stato hanno un ruolo di garanzia, di testimonianza e soprattutto di rappresentanza istituzionale. Purtroppo però non bastano, anche se rimangono un punto di riferimento per tutti. Il problema è la gestione del potere. Quando in una democrazia – il governo del popolo (dal greco demos: popolo e kratos: potere) – il kratos umilia il demos, allora il leader “populista” diventa l’alternativa, non teme di essere percepito e stigmatizzato come parte del popolo, che per quella voluta prossimità lo premia con un consenso affettivo. Nel leader che mangia un piatto di spaghetti, o che prende il bus, oppure che balla c’è la politica della rappresentazione che vince su quella della rappresentanza e delle competenze. È la natura del potere che condiziona la crescita del popolo, le sue politiche e l’avvento dei populismi, perché è come una moneta a due facce: possiede l’altro oppure lo libera; lo soffoca o lo fa sbocciare; lo controlla o lo accompagna; lo odia o lo ama. Invece, le vere politiche del popolo sono quelle che partono dalle relazioni e non dalle istituzioni.

Da alcuni anni si occupa del tema della giustizia riparativa. Dal 2016 con il suo libro “Giustizia capovolta. Dal dolore alla riconciliazione” porta avanti un importante riflessione su questo tema, su questo nuovo paradigma che realizza una conversione culturale da una visione retributiva quella riparativa. Ci può sintetizzare questo percorso e il senso di questa proposta? Ci sono già esperienze in questo senso?
Il modello vigente, quello della «giustizia retributiva», risponde a tre interrogativi: quale legge è stata infranta; chi l’ha infranta; quale punizione dare. Questo modello ha portato a difendersi dal processo e non nel processo: lunghi tempi per una sentenza, la prescrizione dei reati, l’interesse degli attori del processo ad aumentare la tensione senza riconciliazione. Qui trovano terreno fertile i tanti processi mediatici, in cui la sentenza sociale viene data prima di quella della magistratura. Ma quante vite di innocenti o di familiari di rei sono state distrutte nella loro reputazione? La preoccupazione degli ergastolani che ho incontrato in questi ultimi mesi riguarda i figli, spesso macchiati dalle colpe dei padri.
A questo modello si va affiancando quello della «giustizia riparativa»: un «prodotto culturale» anzitutto, che pone al centro dell’Ordinamento il dolore della vittima e la riparazione del reo che risponde a tre domande: chi è colui che soffre? Qual è la sofferenza? Chi ha bisogno di essere guarito? Nell’ambito della giustizia riparativa la stessa definizione di reato non si limita all’infrazione del bene giuridico protetto dall’Ordinamento, come se l’offesa si limitasse allo Stato e alle sue leggi, ma considera anche e anzitutto una «rottura di relazioni» tra cittadini. La figura del detenuto persona è posta al centro dell’Ordinamento e le pene devono concretamente rispondere al principio di umanizzazione e avere una finalità rieducativa. Si tratta di un processo culturale che invece della vendetta punta a ricostruire la relazione ricostruendo la verità di ciò che è accaduto.
Tecnicamente, il percorso si articola in alcuni fondamentali passaggi: 1) Il riconoscimento, da parte del reo, della propria responsabilità davanti alla vittima e alla società; 2) L’incontro con la vittima; 3) L’intervento della società attraverso la responsabilità diretta e la figura del mediatore; 4) L’elaborazione, nella vittima, della propria esperienza di dolore; 5) L’individuazione della riparazione, che può essere la ricomposizione di un oggetto o di una relazione. Questo modello nasce dalla Bibbia, da anni alcuni gesuiti come il card. Martini, i padri Bovati, Bertagna, Iula ed altri lo stanno portando avanti. Tutto questo al netto da forme di buonismo, perché quelle della Genesi sono spesso storie di conflitti violenti tra fratelli: così i racconti che vedono come protagonisti Caino e Abele, Isacco e Ismaele, Esaù e Giacobbe, Giacobbe e Labano, Giuseppe e i suoi fratelli. Proprio grazie al realismo di Israele il modello è servito per regolare anche i rapporti fra gruppi e Stati, tribù e nazioni che si impegnano a trattarsi come fratelli, per ristabilire l’alleanza e il reciproco riconoscimento.

Torniamo al tema della politica. Nel suo recente libro “Ricostruiamo la politica. Orientarsi al tempo dei populismi” cerca di rispondere ad alcuni questioni di fondo: quali sono le caratteristiche dei populismi europei? Quali riforme mancano al Paese? Quale contributo possono dare i credenti e la Chiesa in Italia alla vita pubblica? Quali sono i temi utili e urgenti del pontificato di Francesco che possono aiutare la vita sociale e politica? Può sintetizzare le sue risposte, le conclusioni a cui è arrivato? È davvero possibile ricostruire la politica? Come e da cosa bisogna ricominciare? La strada indicata dall’esperienza di Connessioni è una delle possibili risposte? Ci può spiegare il senso di questa iniziativa attiva da oltre dieci anni?
Il volume, può servire da bussola, vuole offrire criteri e proposte concrete per comprendere le caratteristiche dei populismi europei e rilanciare il dibattito politico nei luoghi vitali della società e delle istituzioni. Il Pontificato di Francesco ha temi sociali inclusivi dal lavoro alla giustizia, dalla cura dei più deboli alle grandi questioni antropologiche. Da parte sua il mondo cattolico è chiamato ad riavviare un grande processo di pensiero e di formazione e a essere ”voce della coscienza” nello spazio pubblico che distingue il bene dal male e difende “l’umano” delle scelte politiche. Per questo il metodo del discernimento in politica – che viene spiegato e attualizzato – porta alla costruzione del bene comune ed è un appello alla coscienza di un popolo per risvegliarlo e nutrirlo di vita. La Prefazione è scritta da Marta Cartabia, Vice Presidente della Corte Costituzionale.

Concludiamo con un riferimento al libro, a sua cura, “Le Politiche del popolo. Volti, competenze, metodo”. Può raccontarci come nasce questo lavoro. Che idea di fondo c’è dietro? Il richiamo al tema del popolo fa riferimento al patrimonio sturziano? Oggi come e perché la politica italiana può recuperare il popolarismo proposto da Don Sturzo?
Il volume è la prosecuzione del testo “Ricostruiamo la politica”, nasce dopo due anni di condivisione spirituale sui temi dell’agenda politica con un gruppo di giovani esperti. Il lavoro e la proposta sono stati sostenuti anche dalla Prefazione del Presidente del Parlamento europeo, David Sassoli. L’operazione del volume è quella di presentare volti, competenza e un metodo di formazione che spieghiamo nel dettaglio.
Veniamo al cuore della sua domanda: in quel particolare contesto storico, il colpo d’ala di Sturzo fu quello di creare un partito laico, democratico e di ispirazione cristiana, con una precisa piattaforma programmatica. E’ il metodo di Sturzo che occorre recuperare come parte della sostanza politica: il concetto di popolo come categoria politica, vie concrete per passare dalla solitudine e dalla paura dell’ “io” al “noi” politico e sociale, l’arte della mediazione, la centralità dei territori, il riformismo, l’interclassismo. L’obiettivo è quello di promuovere un nuovo modello di sviluppo umano integrale, che sta a cuore alla Chiesa, come alternativa a un sistema che è collassato per sempre dopo l’esplosione del coronavirus.

27 marzo 2020

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