Per me Acli significa almeno altri due acrostici. Enaip, anzitutto, e poi Mopl. Tutte strane parole incontrate a ventitre anni, quando ho avuto la mia prima supplenza annuale di Cultura Civica e sociale all’Enaip di Cantù e l’anno successivo ho svolto il servizio civile da obiettore di coscienza presso il Movimento Primo Lavoro (“Mopl”, un nome che sembrava uno strano mantra) della stessa città e il Gruppo pace delle Acli di Como.
Quindi per me Acli significa giovani, dialogo, pace, antimilitarismo, servizio, accoglienza. E tantissimi incontri, tante persone. I ragazzi e le ragazze dell’Enaip, prima di tutto, che per sette anni avrei continuato a vedere nelle aule del centro canturino; i giovani e giovanissimi che si rivolgevano al Movimento Primo Lavoro per cercare un primo impiego e ai quali, prima dell’era Internet, insegnavamo a fare un curriculum, una ricerca sui giornali, un colloquio. E poi i giovani obiettori che si avvicinavano a noi per capire come presentare la domanda al Distretto e ai quali proponevano percorsi di nonviolenza: era l’epoca della Guerra del Golfo ed essere pacifisti per alcuni significava essere “infami indegni figli d’Italia” come scrissero su un cartello che ci appesero alla tenda dentro la quale facevamo un simbolico sciopero della fame
Quali i tratti comuni di queste esperienze? Per me sono tre nuove fedeltà, oltre a quelle classiche che compaiono nel logo dell’Associazione:
- Il valore formativo dei gesti. In quegli anni sono stato messo di fronte a una vera e propria pedagogia legata alla concretezza dell’azione quotidiana, nei laboratori della scuola, nelle aziende, in piazza. Una pedagogia fortemente concreta che però non rifiutava l’approccio teorico (penso a incontri come Antonio Nanni, Francesco Beretta; purtroppo non Bonandrini che scomparve l’anno prima del mio arrivo); si trattava di intercettare ragazzi e ragazze che avevano bisogno di un approccio fisico e corporeo alla formazione, vittime spesso di una scuola che li aveva espulsi o tollerati (“al massimo puoi iscriverti al Cfp”) e che dovevamo rimotivare facendo loro vivere un successo formativo; ma si trattava anche di rivitalizzare un movimento nonviolento che si stava scuotendo dallo shock per il suicidio di Alex Langer e che aveva bisogno di nuove linfe vitali; e infine di portare i ragazzi e le ragazze a una ricerca attiva del lavoro, nella quale, anche attraverso i tanti colloqui simulati, potessero trovare un loro protagonismo. La pedagogia Acli era per me una sorta di seconda Università, affiancata al mondo accademico sempre troppo paludato e difeso (oggi molto più di ieri) rispetto agli approcci di marca emozionale ed esistenziale.
- L’approccio nonviolento: l’incontro con Nanni Salio, Antonio Papisca, Giuliano Pontara, Mao Valpiana, Johan Galtung avvenuto nei seminari di formazione durante l’anno di servizio civile mi ha aiutato a capire che come diceva Capitini “nonviolenza” si scrive tutto attaccato perché non si tratta solo di un no alla violenza ma di un atteggiamento completo nei confronti della vita. L’onda sanguinosa degli anni di piombo si era esaurita non da molto tempo e per chi militava per la pace non era facile scrollarsi di dosso quel verso brechtiano “noi non si potè esser gentili” che tanti equivoci aveva creato e avrebbe continuato a generare. La nonviolenza era vissuta anche in modo conflittuale: da un lato un approccio totalizzante che condannava la violenza sempre e senza riserve, dall’altra la posizione di chi sosteneva che in una situazione di oppressione acuta una risposta violenta fosse inevitabile. Ma comune a entrambe le posizioni era l’idea che la violenza avvelenasse le anime e i corpi e soprattutto che non si trattasse di un destino inscritto in qualche modo nel patrimonio genetico dell’essere umano ma di una scelta, della quale di volta in volta si era chiamati a rendere conto
- L’escatologia realizzata. Sembra forse eccessivo scomodare una categoria teologica ma in tutte le esperienze citate c’era da parte almeno di alcuni l’idea che il lavoro comune sui temi come la pace, l’educazione la nonviolenza dovesse essere caratterizzato dalla costruzione di rapporti tra colleghi che in qualche modo si ispirassero a una sorta di “parrhesia”, o perlomeno si sottraessero e criticassero le dinamiche di maschilismo, protagonismo, arroganza che spesso permeano i rapporti di lavoro. L’idea della correlazione tra mezzi e fini ereditata dalla tradizione nonviolenta incontrava qui l’insistenza del movimento femminista sulla critica del potere da operare a partire dalla situazione concreta di chi prende la parola in un dibattito. Lo sforo, difficilissimo e non sempre riuscito ma comunque lodevole, era allora quello di dedicare tempo alle discussioni, di non far mai valere il principio di maggioranza in modo automatico e in fin dei conti autoritario, di ricordare a coloro che occupavano posizioni di potere che il loro ruolo era prima di tutto legato al concetto di servizio. Un pensiero che purtroppo nelle classi dirigenti del nostro Paese è oggi ancora più remoto di quanto non lo fosse allora
Cosa resta oggi di tutto questo e cosa è possibile rilanciare per i prossimi anni (se non proprio 80, almeno qualche decennio)?
Anzitutto la constatazione che la strada da percorrere è lunga; se penso al mondo della scuola il valore formativo dei gesti (e dei corpi, degli spazi, dei tempi, degli oggetti) è ancora bel lungi dall’essere compreso nella sua pregnanza, anzi sembra che la scuola sia sempre più vittima di un pregiudizio che la porta a educare i ragazzi dal collo in su come diceva Mario Lodi; l’approccio nonviolento sembra essere scosso dai quotidiani sismi che vengono da Kiev o da Gaza ma anche dalle case, dalle scuole, dalle discoteche nelle quali ogni giorno la violenza sembra ormai avere fatto il nido; ed è difficile parlare di escatologia realizzata quando fare politica significa sempre più urlare da uno schermo o badare agli scostamenti di un millesimo di percentuale nel quotidiano inutile sondaggio e quando anche nei gruppi che cercano di essere alternativi al sistema è sempre più difficile trovare il tempo per la critica, l’autocritica, l’ascolto delle posizioni minoritarie.
Ma sapere di avere percorso una strada è già qualcosa in mezzo alla desertificazione delle idee e dei rapporti sociali che spesso constatiamo attorno a noi e anche se la via è lunga, le esperienze che le Acli mi hanno consentito di fare mi fanno essere sempre più convinto che possiamo permetterci tutto ma non la disperazione
Nel piccolo pezzettino che ho vissuto della storia di questi 80 anni ho incontrato tante persone con le quali, nel lavoro, nel conflitto, nel confronto, nelle Acli, “noi si potè esser gentili”, o almeno si provò a farlo. Non mi sembra poco, soprattutto oggi.
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