Dagli anni 1980 fino al 2000, ha svolto una articolata attività nel campo della cooperazione internazionale, prima presso il CISV di Torino e poi presso reti e coordinamenti di ONG nazionali ed europee. Un impegno che ha trovato la sua piena maturità nella FOCSIV di cui sei stato Presidente nazionale (dal 1994 al 1999). Purtroppo in questi anni sembra in atto un attacco politico (ed in alcuni casi mediatico), almeno nel nostro Paese, a questo mondo. Perché? La cooperazione internazionale è realmente in crisi? Che ruolo può e deve avere? Come può essere rilanciato? I singoli stati del nostro Continente e l’UE che scelte sono chiamate a compiere in questo ambito?
Il variegato mondo delle ONG di volontariato e cooperazione internazionale ha rappresentato una grande ricchezza di questo paese ed ha offerto un prezioso e spesso innovativo contributo alle relazioni internazionali del paese, così come di tutta Europa, dal campo più strutturato dello sviluppo a quello più particolare dell’aiuto umanitario nelle situazioni di emergenza e di guerra. Con alterne vicende e tasso di apprezzamento da parte delle autorità politiche, bisogna riconoscere che negli ultimi 40 anni questo mondo ha sempre trovato una interlocuzione e un sostegno complessivamente positivi da parte dello Stato e dell’opinione pubblica. Anzi, spesso è stato chiamato a svolgere ruoli di primo piano in contesti particolarmente complessi e sfidanti, riuscendo a garantire risultati e presenze che altrimenti non sarebbero stati possibili. Debbo dire che, a mia memoria, il momento più critico fu agli inizi degli anni ’90, quando a fronte di una crisi senza precedenti delle finanze pubbliche del paese, che arrivò ad un passo dalla bancarotta, tutta la cooperazione allo sviluppo fu azzerata e così sospesi tutti i cofinanziamenti ai diversi progetti delle ONG in corso e precedentemente approvati, per un montante allora di diverse centinaia di miliardi di lire. Non mi pare che oggi siamo in una situazione simile. Ci sono attacchi è vero, ma più concentrati su quelle ONG impegnate sul fronte difficilissimo del soccorso dei migranti che a rischio della propria vita prendono la via del mare o delle lunghe e tragiche rotte dei Balcani.
Credo che in via ordinaria sia il Parlamento che le istituzioni del Governo e delle organizzazioni internazionali continuino ad essere convinte del prezioso contributo delle ONG e, pur nelle difficoltà altalenanti dei finanziamenti, questo fatto non venga meno. Però vi è certo un cambiamento complessivo di scenario e di priorità, talora meno comprensibili e continuative nel nostro paese, che chiedono alle stesse ONG un salto di strategia, di organizzazione, di visione e di aggiornamento del proprio “mestiere” Alcune lo stanno facendo in modo più efficace di altri, bisognerebbe investire di più, anche da parte pubblica, in questo processo aggiornamento ed osare anche vie nuove.
Dal 2000, per oltre dieci anni, ha ricoperto importanti incarichi nelle Acli: Responsabile della Rete Europea della Presidenza nazionale delle ACLI (2000–2004); Vicepresidente della Federazione ACLI Internazionali, con sede a Bruxelles (2001-2006); membro della Presidenza nazionale Acli, in qualità di Responsabile del Dipartimento Attività e Relazioni Internazionali. Ed infine Presidente del Consiglio nazionale delle ACLI (2008-2012). Che peso ha avuto questa esperienza nel suo successivo impegno in ambito europeo? Che ruolo possono avere realtà come le Acli per far si che l’UE sia capace di ascoltare la voce dei suoi cittadini sostenendo quelli più deboli? Le Acli in che modo possono rilanciare il loro impegno in ambito europeo ed internazionale?
Le ACLI sono un grande patrimonio civile di questo paese e in qualche misura anche un “unicum” nel panorama europeo, per la compresenza di una dimensione associativa e di formazione, di produzione di servizi e di attività di impresa sociale, associate ad una sempre vitale capacità di azione politica e generazione di innovazioni nel campo di alleanze le più diverse sui temi cruciali del paese, dalla povertà alla pace, dall’immigrazione alla partecipazione politica e alla riforma delle istituzioni democratiche. In questo sono state una grande palestra nel rafforzarmi nella convinzione che una democrazia vitale deve basarsi su due pilastri, non in antagonismo ma in dialettica collaborazione: quello rappresentativo, delle assemblee e funzioni elette dai cittadini, e quello partecipativo della varietà in continuo mutamento delle formazioni sociali. Che pur con i loro elementi di crisi (invecchiamento, modalità di partecipazione, sfide organizzative e anche finanziarie) sono un punto di tenuta imprescindibile del paese, svolgono un ruolo di tessitura e cucitura sociale che sono ancora più cruciali in tempi di cosi radicali sfide e cambiamenti, evitano che la democrazia si riduca sempre più a procedure, sfidano il lavoro dei legislatori e delle istituzioni con il punto di vista di chi fa proposte e prende posizioni a partire dalle “mani in pasta”, che leggono prima i bisogni e verificano molto concretamente il funzionamento o gli errori delle diverse scelte pubbliche. Ho fatto di questa battaglia una delle mie principali in questi 22 anni di lavoro nelle istituzioni europee, non solo dare corpo concreto al principio di sussidiarietà ma anche per l’ampliamento degli spazi della democrazia partecipativa nello spazio pubblico europeo, come anche una delle modalità per accorciare la distanza tra cittadini, lavoratori e imprese, la cui azione si svolge su tanti territori locali e il mondo distante dei palazzi dell’Europa.
Veniamo al suo impegno in ambito europeo, che dura da oltre 20 anni. Inizia nel settembre 2002 quando diventa Consigliere del Comitato Economo e sociale Europeo, e prosegue, sempre nel CESE, dove ricopre deversi incarichi (Vicepresidente della Sezione specializzata Occupazione, Affari sociali, Cittadinanza – 2004; Vicepresidente del Gruppo III° – 2006). Questo impegno culmina con la sua elezione a Presidente del Gruppo III del CESE (2011), incarico poi riconfermato per diversi anni. Che bilancio fa di questa esperienza, ancora non del tutto conclusa? Che evoluzione ha visto nelle diverse Istituzioni Europee? Cosa serve per dare all’Europa un nuovo ruolo nelle relazioni internazionali?
Sono ancora oggi estremamente grato di aver avuto l’opportunità di giocare in questo campionato e di vivere dal di dentro il farsi delle politiche e delle norme europee, scoprendo le enormi complessità di questo processo che coinvolge un numero sempre maggiore di paesi (quando sono arrivato erano 15, oggi sono 27, dopo la Brexit, con un numero di paesi con cui sono in corso negoziati di adesione che allora neppure avremmo immaginato…), di lingue, culture, sistemi sociali e pratiche di governo, ma nel quale si sperimenta anche le straordinarie e spesso feconde potenzialità per rendere più prospero e solido il comune futuro. Ho vissuto l’allargamento dell’UE, una riforma dei Trattati con un aumento del 40% delle competenze, tre crisi esistenziali (quella finanziaria e poi economica del 2008-2013, il COVID e poi la guerra con il suo tremendo impatto su elementi cruciali del funzionamento dei nostri modelli economici) ed ho visto periodi di grandi entusiasmi e balzi in avanti, come anche di faticosa stasi, di ripiegamento nazionalistico, di pazienza certosina nel costruire vie avanzamento (come il faticoso accordo sul Pilastro sociale) e poi le scelte rivoluzionarie di grande Rinascimento europeo fatte nella passata legislatura, a partire dal Green Deal per giungere alle prime emissioni di debito comune per finanziare le ripresa postpandemica. E come dopo ogni grande periodo di slanci, innovazioni che per decenni si erano ritenute impossibili, sembra ora vi sia una certa stanchezza, una grave fragilità del patto sociale ed economico in molti paesi chiave dell’Unione e una certa confusione nel trovare il corretto equilibrio sulle priorità strategiche su cui concentrarsi, evitando di ripiegare su populistiche e peraltro inconcludenti soluzioni nazionali, come sono state le due recenti decisioni della Germania di sospendere la libera circolazione delle persone in funzione antimigranti e di blocco di una positiva quanto necessaria operazione di fusione bancaria (della serie, prima la Germania…..) Ecco all’Europa serve esattamente il contrario di questo, ad una velocità ed estensione molto maggiori di ieri.
Parliamo ora del suo libro “Fare l’Europa, fare la pace”, pubblicato da Feltrinelli ed uscito nel 2024. Passa in rassegna gli ultimi sessantasette anni del progetto europeo, con competenza e passione, proponendo un’agenda di speranza per l’Europa del 2030 con alcune chiare priorità: dal patto verde alle politiche di asilo, dalla sovranità strategica alla difesa, dalla coesione alla riforma delle Istituzioni e del bilancio. Sta a noi raccogliere l’invito di David Sassoli, cui Lei ha dedicato il suo saggio, a custodire l’edificio di pace sorto sulle macerie del secondo conflitto mondiale. Cosa fare? Come aprire una stagione rifondativa e di riscoperta del progetto europeo per evitare il collasso, per reagire alle retoriche nazionaliste? Ed ancora: quali scelte – oltre a quelle da lei richiamate – e quali principi devono essere di nuovo posti a fondamento dell’Europa ormai da 2 anni alle prese con una guerra, quella tra Russia-Ucraina, che mina la sua stabilità e quella del mondo intero?
Ho deciso di scrivere questo libro nella tarda primavera del 2023 perché, di fronte alle sfide del presente, aggravate dall’esplosione della questione geopolitica che stava maturando da tempo e che la guerra che la Russia ha scatenato sul suolo ucraino ha fatto deflagrare in modo dirompente, avvertivo un duplice rischio. Il Primo di dimenticare quanto di straordinario e inedito l’Europa ha saputo produrre in termini di risposte rapide e unitarie in questa passata legislatura, rischiando di considerarla una parentesi da chiudere in fretta. Il secondo di non rendersi conto che questa non è stata che il buon test di premessa di quanto l’Europa è chiamata a fare oggi di fronte alle sfide sia delle tre transizioni (climatica ed energetica, digitale e sociale) che dello scenario geopolitico che ha riportato la guerra e la crisi radicale del multipolarismo. Per evitare il collasso, dicevo nel mio libro, o una lunga e conflittuale agonia, come dice Draghi nel suo ultimo Rapporto. E così purtroppo mi pare sia in parte avvenuto: tutte le campagne elettorali europee della primavera 2024 si sono concentrate su dinamiche nazionali e hanno evitato di affrontare nel merito un grande dibattito con gli elettori su quelle due questioni e sulle eventuali diverse proposte di soluzioni sistemiche.
Oggi in Europa le maggioranze si sono spostate molto più a destra, certamente la sfida della sicurezza e delle difesa sono messe in alto nell’agenda della legislatura, ma di nuovo invertendo l’ordine (invece di partire dal nodo politica estera e di difesa comuni, che già voleva De Gasperi ai tempi della CED, si parte dagli investimenti nelle industrie della difesa) così come anche quelle della competitività che l’Europa sta perdendo rispetto a USA e Cina, per le dinamiche geopolitiche, ma anche per tante altre debolezze non ultima quella demografica, Ma anche qui si rischia di tradurre al contrario quanto ci dicono Draghi e prima Letta, e pensare solo ad alleggerire il carico normativo per le imprese (pur importante) e non a quelle cruciali politiche sistemiche che richiedono ciò che ho definito un salto quantico. Sia in termini di nuove politiche comuni (dall’energia alle industrie di domani, digitale in primis, dal mercato finanziario per mobilitare gli enormi risparmi degli europei, alla cultura, l’emigrazione, la formazione, la ricerca, le politiche esterne e tanto altro) sia di mezzi finanziari, stimati in almeno 800 miliardi all’anno, che sono pari ad un Next Generation EU all’anno per dieci anni. E così è sul tema delle guerre che altri hanno scatenato fuori da ogni ordinamento internazionale e sulla difficoltà dell’Europa di sviluppare azioni politiche diplomatiche che vadano al di là del sostegno doveroso dell’aggredito ma lavorino da oggi per possibili futuri piani di pace e quadri di una nuova comune sicurezza nel quadro europeo e del Mediterraneo, cosa che potrebbe persino favorire una più rapida conclusione della follia attuale della guerra.
Veniamo infine alla sua ricca esperienza di impegno laicale, in parte richiamato parlando delle Acli. Nel 2001 è stato tra i promotori di Retinopera, di cui è stato Segretario (2005-2007) e nel 2009 è stato membro del Comitato promotore delle Giornate sociali dei cattolici per l’Europa, svoltesi a Danzica nell’ottobre 2009. Concentriamoci però sul tema del debito. Dal febbraio 1999 al 2001 è stato Segretario del “Comitato Ecclesiale Italiano per la riduzione del debito estero dei paesi più poveri”, costituito dalla CEI nell’ambito delle iniziative per il Giubileo del 2000. Alla viglia del Giubileo che inizia il prossimo 24 dicembre, (esattamente 25 anni dopo) il tema del debito è ancora una questione che pesa sul futuro dei Paesi più poveri. Trovare una soluzione a questa questione può rappresentare un modo per intraprendere un percorso di sviluppo di queste popolazioni? In che senso?
Anche qui ci vorrebbe ben di più di queste poche righe per rispondere alle sollecitazioni. Lasciatemi dire che l’intuizione straordinaria della menzionata campagna ecclesiale fu quella di mettere in campo una azione largamente innovativa dell’Italia sulla remissione del debito estero, con l’idea di legarla attraverso un meccanismo di “conversione” ad un impegno rafforzato e preciso di investimenti per lo sviluppo dei singoli paesi cui veniva cancellato una parte del debito impagabile. La legge italiana fu allora considerata la più avanzata ed innovativa al mondo. Per molti paesi poveri si apri una positiva stagione di crescita e tante dinamiche di progresso che facevano ben sperare, L’impatto della crisi finanziaria del 2008, del Covid poi e delle devastanti conseguenze della guerra (in termini di prezzi esplosi delle forniture energetiche e alimentari) hanno non solo mandato all’aria quelle dinamiche ma in molti casi fatto riesplodere il debito pubblico, accompagnato da dirompenti instabilità e guerre, come ben vediamo soprattutto nel continente africano. Purtroppo il tema del debito estero oggi non è nemmeno lontanamente presente nelle agende internazionali come era negli anni ’90 e bisognerebbe intanto far si che questo accada e poi lavorare per nuove soluzioni di partenariato strutturale per associare questi paesi a forti investimenti legati a quelle stesse tre transizioni che l’Europa deve affrontare, Anche da questo dipenderanno le sorti della pace e del progresso su scala planetaria e una positiva traduzione del Patto per il futuro appena approvato dalle Nazioni Unite.
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