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Vi proponiamo un’ampia intervista a Paolo Magri – Presidente del Comitato Scientifico dell’ISPI e docente di Relazioni Internazionali all’Università Bocconi – curata da Fabio Cucculelli

L’ISPI – l’Istituto per gli Studi di Politica Internazionale – che quest’anno compie 90 anni, è oggi riconosciuto tra i più prestigiosi think tank dedicati allo studio delle dinamiche internazionali. È l’unico istituto italiano – e fra i pochissimi in Europa – ad affiancare all’attività di ricerca un significativo impegno nella formazione, nella convegnistica e nelle attività di analisi e orientamento sui rischi e sulle opportunità a livello mondiale per imprese e Istituzioni. Ci può descrivere sinteticamente le tappe evolutive del vostro impegno. Perché è importante fare formazione geopolitica per imprese e istituzioni? Come allargare i destinatari dell’azione formativa? Che ruolo possono avere realtà della società civile come le Acli?

Nel corso degli ultimi 90 anni il mondo è cambiato radicalmente, e così anche il ruolo dell’Italia. Quella che non è cambiata è la missione dell’ISPI, a cui l’istituto rimane affezionato: da un lato, studiare e comprendere le dinamiche globali; dall’altro, offrire strumenti concreti per interpretarle e gestirle a cittadini, imprese e istituzioni.

Certo, gli strumenti a nostra disposizione sono mutati, e così sono cambiate le nostre proposte, il nostro modo di lavorare e di comunicare. Abbiamo così sviluppato programmi sempre più articolati, indagato filoni di ricerca innovativi, sperimentato nuovi strumenti per analizzare il presente, lanciato nuove proposte formative capaci di fornire delle chiavi di lettura originali.

Abbiamo fatto tutto questo con una consapevolezza: le sfide internazionali diventano sempre più complesse e interconnesse e le persone vogliono essere più informate su ciò che accade nel mondo prima di prendere decisioni. Questo è particolarmente vero per le istituzioni e le imprese, che devono saper gestire i rischi e cogliere le opportunità che emergono su scala globale.

Crediamo che sia però essenziale raggiungere un pubblico più vasto, includendo non solo esperti e addetti ai lavori, ma anche giovani, studenti e cittadini interessati a comprendere le dinamiche internazionali. Per questo abbiamo investito negli ultimi anni per rendere più accessibile ed efficace il nostro lavoro, anche grazie al ricorso all’analisi di dati, alle grafiche, all’utilizzo di nuovi media. In questo processo, le organizzazioni della società civile come le Acli possono e stanno avendo un ruolo fondamentale. Grazie alla loro presenza diffusa e al radicamento nel territorio, sono veicoli efficaci per diffondere tra le comunità locali la capacità di guardare più in là e di provare a capire le dinamiche globali, sensibilizzando e formando i cittadini su questioni cruciali per il nostro futuro.

Dal suo osservatorio e da quello dell’ISPI quali cambiamenti degli equilibri geopolitici stanno avvenendo? Il libro “L’Europa nella età della insicurezza” (uscito nel 2024) curato da lei insieme ad Alessandro Colombo, propone contributi – realizzati da esperti dell’ISPI – che aiutano a comprendere le dinamiche di un mondo sempre più disordinato e imprevedibile, ripercorrono le risposte messe in atto dai paesi europei e indicano le direzioni future più efficaci per ridurre quel senso di insicurezza che minaccia di travolgere il Vecchio Continente. E’ possibile per l’Europa e l’Italia giocare un ruolo nuovo a livello mondiale? In che modo?

Nel libro – che è poi il nostro rapporto annuale – raccontiamo un mondo che si fa sempre più insicuro, ma questa potrebbe non essere una novità. In fondo è da quando ci siamo accorti che la “fine della Storia” non era proprio arrivata, verso la fine degli anni Novanta, che ogni anno potremmo fare l’elenco delle evoluzioni internazionali che ci fanno sentire sempre meno sicuri. Però due cose sono cambiate, una per il mondo e una per noi europei. Partiamo da quest’ultima. Se guardiamo il mondo dalla nostra posizione privilegiata, era dal 1998 che la guerra non tornava sul suolo europeo. Non solo: se le guerre jugoslave avevano in fondo a che fare con la dissoluzione di una federazione, ancorché alle porte di casa nostra, l’invasione russa dell’Ucraina ci ha fatto rimettere in dubbio l’idea che la guerra in Europa fosse un retaggio del passato.

Per il mondo, invece, gli attacchi del 7 ottobre e la guerra Israele-Hamas hanno segnato un passaggio cruciale. Di nuovo, non perché l’instabilità e la guerra fossero assenti dal Medio Oriente, che anzi dal 2003 e ancora di più dal 2011 è tornato a essere una delle aree di conflitti, guerre civili e tensioni regionali più calde del globo. Ma perché abbiamo avuto la prova provata che quello che accade in un luogo del mondo può avere conseguenze geopolitiche (e geoeconomiche) imprevedibili a centinaia o migliaia di chilometri di distanza. L’inizio delle fasi più violente della guerra, sul finire del 2023, ha infatti coinciso con la decisione dei ribelli Houthi dello Yemen di prendere di mira le navi commerciali che attraversano lo stretto di Bab el-Mandeb, a pochi chilometri dalle coste del paese. Così, il conflitto in Palestina ha avuto forti conseguenze sul traffico commerciale globale, con le navi dirette in Europa dall’Asia che da allora sono costrette a circumnavigare l’Africa o a pagare premi assicurativi ben più elevati, e il costo dei noli che si è quintuplicato (e oggi è ancora quattro volte più elevato rispetto al periodo precedente gli attacchi).

Proprio gli Houthi hanno dimostrato che il margine d’azione dell’Europa (e in un certo qual modo anche degli Stati Uniti) è limitato. Le missioni militari occidentali nel Mar Rosso, partite a inizio 2024 (“Prosperity Guardian” degli USA e “Aspides” dell’UE), non hanno infatti ancora ottenuto i risultati sperati, e i traffici commerciali risentono ancora fortemente della crisi. D’altra parte, si è anche capito cosa non va: come al solito, l’incapacità europea di parlare con una voce sola, e agire di conseguenza. Sul nostro continente continuiamo a rimanere divisi non solo nella fase del dibattito e della discussione delle opzioni politiche e militari sul tavolo, ma anche al momento di decidere e di applicare le azioni. Non solo gli Houthi: basti pensare ai frequenti veti e alle azioni dilatorie dell’Ungheria rispetto alle sanzioni alla Russia e agli aiuti finanziari e militari dell’UE all’Ucraina.

Veniamo alla guerra Russia-Ucraina. Per anni l’Occidente ha ignorato le implicazioni della politica di riarmo russa. Ma nell’autunno del 2021 gli Stati Uniti hanno scoperto i preparativi materiali per l’attacco nelle regioni limitrofe all’Ucraina, sfrontatamente negati da Mosca. L’Europa è apparsa fino all’ultimo incredula. Quando alla fine dell’anno il Cremlino ha offerto un ampio negoziato sulla sicurezza europea, cioè sugli assetti geopolitici, in cambio della pace, probabilmente il dado era già tratto. Eppure sarebbe valsa la pena di tentare in extremis quella via, con una più convincente disponibilità della Nato a fare sostanziali concessioni. E’ possibile oggi riprendere la via diplomatica per uscire dalla guerra?

A un certo punto anche questa guerra, come tutte le guerre, dovrà finire, e finirà proprio con l’esercizio della diplomazia. Purtroppo, però, i tempi non sembrano maturi per questo. In questi oltre due anni e mezzo di guerra in Ucraina, la diplomazia è sempre rimasta sullo sfondo: basti pensare agli incontri tra le delegazioni russa e ucraina durante le prime settimane del conflitto, o agli sforzi di mediazione da parte di Paesi terzi – soprattutto la Turchia – o ancora, al Summit per la Pace organizzato da Kiev in Svizzera lo scorso giugno. Ma non si è mai riusciti a raggiungere un accordo, se non su singoli dossier (per esempio, sul grano…ma solo prima che la Russia decidesse di ritirarsi dall’accordo). Lo “spettro” dei negoziati continua ad aleggiare tuttora, con il Cremlino che si professa sempre disponibile a sedere al tavolo, mentre Kiev pianifica di organizzare un secondo vertice per la pace a breve, aprendo addirittura alla partecipazione della controparte.

Seppur la porta delle trattative resti formalmente aperta, attualmente sia Russia che Ucraina, più che a siglare la pace, sono disposte a “imporre” la pace all’avversario. Detto semplicemente, Putin siederebbe al tavolo della pace solo se Kiev accettasse la capitolazione, insieme a un riesame dell’assetto securitario europeo, con l’Ucraina che dovrebbe dare garanzie sulla propria neutralità e sulla futura non-adesione alla NATO. A sua volta, Kiev parlerebbe con Mosca se questa sventolasse bandiera bianca, annunciando la resa incondizionata e riconsegnando tutti i territori ucraini assoggettati, Crimea inclusa.

In uno scenario simile, dunque, più che di una pace giusta, parleremmo di una pace “imposta” da una parte sull’altra. Ma chi potrebbe imporre le proprie condizioni in questo momento? Sia la Russia che l’Ucraina non sembrano pronte a fare concessioni significative. Entrambe pensano che il tempo sia dalla loro parte, e che in caso di negoziati tra 6 o 12 mesi, si troverebbero in una posizione migliore rispetto a oggi. La Russia lo crede in virtù dei lenti ma costanti avanzamenti ottenuti quest’anno in Donbass, della sua più numerosa popolazione (e dunque della sua possibilità di reclutare nuove leve), della stanchezza occidentale e dell’eventuale elezione di Donald Trump a presidente degli Stati Uniti, che probabilmente porterebbe a un disengagement statunitense da questo teatro di conflitto. L’Ucraina perché conta di riuscire a ottimizzare l’impiego degli aiuti militari già ottenuti dall’Occidente e spera in ulteriori concessioni potenzialmente capaci di influenzare la situazione sul campo: si pensi al dibattito attuale sull’uso di missili per bersagliare la Russia profonda.

In ogni caso, parlare di pace al momento mi pare affrettato, perché a determinare il processo di pace, in ultima istanza, c’è sempre il campo di battaglia. E lì, sia la Russia che l’Ucraina non si sentono sconfitte, ma anzi ritengono di avere ancora delle frecce al proprio arco.

La guerra Russia-Ucraina ha mostrato, ancora una volta, l’incapacità delle Istituzioni preposte alla governance internazionale (ONU in primis) di mettere in atto misure per contrastare uomini e nazioni che si rendono protagonisti di azioni che rappresentato scandalose violazioni del diritto internazionale? Come intervenire per riformarle e dare forza alla loro azione?

Mi permetto di capovolgere la domanda, e di farne un’altra: ha senso pensare che la riforma delle istituzioni internazionali di sicurezza collettiva, prima tra tutte l’Organizzazione delleNazioni Unite, porterebbero a un’effettiva capacità di risoluzione pacifica delle controversie? O non è forse il caso di ammettere che proprio quelle forze che ostacolano da decenni una riforma sono il sintomo di un sistema internazionale sempre più spaccato, in cui gli interessi sono troppo divergenti per trovare compromessi?

Personalmente, penso che ci troviamo vicini a quest’ultima condizione. E qui è difficile attribuire “colpe”. Da un lato, paesi emergenti e in forte crescita come la Cina e l’India negli ultimi decenni hanno prevedibilmente cercato di ricavarsi spazi sempre maggiori, e nel farlo hanno messo in dubbio gran parte delle istituzioni del mondo “a guida occidentale” del post-guerra fredda. Dall’altra, l’Occidente stesso ci ha messo del suo, cercando di contenere l’ascesa degli emergenti e, spesso, ignorando le richieste di riforma delle istituzioni internazionali che provenivano da questi paesi. Ciò è successo anche quando queste richieste provenivano dagli strati riformisti e dialoganti dei paesi emergenti. Penso alla riforma del Fondo monetario internazionale, in cui il diritto di voto cinese è stato portato dal 2% al 6%, mentre ormai la Cina supera il 17% del PIL mondiale. O alla incomprensibile decisione degli Stati Uniti di smettere di nominare i giudici dell’Organo d’appello dell’Organizzazione mondiale del commercio. Una scelta che ha consentito a chi già stava basando la propria crescita economica su sistemi basati su sussidi e concorrenza sleale di continuare a farlo, forti della convinzione che poi sarebbe stato semplice accusare Washington e l’Occidente tutto di essere loro per primi a non volere risolvere in maniera giuridica e “obiettiva” le controversie commerciali tra stati.

In tutta franchezza, la strada per uscirne è semplice: partire da alcuni punti comuni, anche tecnici, su cui l’Occidente e il “Sud Globale” possano sentirsi d’accordo, e lavorare per arrivare a grandi compromessi che consentano di riportarci verso periodi di distensione. Perché le tensioni internazionali, se prolungate nel tempo, rischiano sempre di più che un piccolo focolare possa trasformarsi in un vasto incendio.

Veniamo infine alla guerra tra Israele e Palestina. Il libro “Il conflitto senza fine. Dieci domande sullo scontro che infiamma il Medio Oriente” (uscito nel 2024) da lei curato, propone dieci analisi di esperti dell’ISPI che provano a capire questo conflitto così complesso, violento, sfaccettato, che dura da anni che sembra appunto destinato a non avere fine. Come ISPI avete voluto, con umiltà e competenza, offrire un contributo per capire, per orientarsi tra gli orrori. Il libro oltre a rispondere ad alcune domande chiave individua anche possibili strade per cambiare la situazione. Quali? Ed ancora: le donne e la popolazione che vive in queste terre, appartenenti a diverse confessioni religiose, stanno manifestando con forza il loro desiderio di pace. Tutto questo può aprire spiragli di risoluzione del conflitto?

Quello fra israeliani e palestinesi è uno dei conflitti più stratificati e divisivi dell’ultimo secolo e ha plasmato le dinamiche geopolitiche dell’intera area mediterranea e mediorientale. Da quasi un anno siamo di fronte a una tragedia senza fine, con decine di migliaia di morti a Gaza, una spirale di violenza crescente che coinvolge anche la Cisgiordania, il dramma devastante dei parenti degli ostaggi israeliani, l’apertura simultanea di nuovi fronti, come in Libano e Yemen, e il concreto rischio di uno scontro aperto fra Israele e Iran. Gli attacchi del 7 ottobre e la reazione israeliana hanno portato a più riprese l’intera regione sull’orlo di una conflagrazione dalle conseguenze catastrofiche. Come uscirne? Quali strade percorrere per provare a cambiare la situazione? All’indomani degli eventi di un anno fa il segretario generale dell’ONU, Antonio Guterres, aveva dichiarato che questi ultimi non erano avvenuti “nel vuoto” ma in un contesto di “soffocante occupazione”. Uscire dalla crisi attuale implica ritornare a provare a riempire questo vuoto, ricominciare a costruire un percorso che dia dignità alle speranze del popolo palestinese e sfoci in una proposta politica per il futuro della Palestina. Sarebbe auspicabile che i principali attori internazionali coinvolti più o meno direttamente – penso agli Stati Uniti, all’Egitto, ai paesi del Golfo o anche all’Europa – provassero a esercitare la propria influenza e leva negoziale in tale direzione e in modo compatto. Purtroppo, almeno per il momento, non sembra essere questo l’esito più probabile della crisi in corso. Al contrario, se e quando si giungerà a un cessate il fuoco, ci aspettiamo lancinanti divisioni all’interno del governo israeliano e fra gli stati della regione sulla governance politica di Gaza, il processo di ricostruzione e, più in generale, il futuro della Palestina. Gli Stati Uniti in campagna elettorale e un’Europa più divisa che mai difficilmente potranno giocare un ruolo efficace. Per quando riguarda le dimostrazioni popolari a sostegno della pace, è alquanto improbabile che queste si traducano in una spinta risolutiva. Sia per il loro carattere limitato e frazionato nel tempo e nello spazio, sia per la natura non democratica di molti stati della regione, sia perché considerazioni di carattere politico e militare hanno spesso la meglio, purtroppo, sul genuino desiderio di pace, è improbabile che queste manifestazioni riescano ad allargare gli spiragli per una risoluzione del conflitto

 

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