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Il 16 settembre è ricorso il secondo anniversario della morte di Mahsa Amini e le proteste del movimento Donna Vita Libertà hanno lasciato il passo alla disobbedienza civile, documentata da numerose testimonianze. È evidente lo scollamento rispetto alla composizione e alle istanze del movimento in Europa e in Iran. Se le iraniane e gli iraniani hanno abbandonato le piazze è per la repressione di regime, ma anche per le difficoltà economiche – dovute alle sanzioni internazionali, alla pessima gestione della cosa pubblica e alla corruzione – e per il rischio di un confronto militare diretto con Israele…

Il 16 settembre è ricorso il secondo anniversario della morte di Mahsa Amini, la ventiduenne iraniana di etnia curda arrestata dalla polizia morale all’uscita della metropolitana a Teheran e deceduta in custodia in seguito a percosse. A distanza di due anni, le proteste del movimento Donna Vita Libertà hanno lasciato il passo alla disobbedienza civile, documentata da numerose testimonianze, tra cui quelle raccolte sul sito di Iran Human Rights. Da due anni, donne di ogni età e di ogni ceto sociale sfidano l’obbligo del velo, ben consapevoli delle ripercussioni. Se frequentano le scuole rischiano di vedersi abbassati i voti in pagella, di essere richiamate dal preside e che i genitori siano convocati. Nel caso di donne adulte, le multe sono severe e – se continuano ad andare in giro svelate nonostante gli ammonimenti – rischiano la detenzione. Se riprese dalle telecamere mentre sono alla guida delle loro autovetture, è possibile che il mezzo venga sequestrato.

Le iraniane e gli iraniani hanno abbandonato le piazze principalmente a causa della repressione di regime. Nei mesi successivi alla morte di Mahsa Amini oltre cinquecento persone sono state uccise negli scontri con le forze dell’ordine, centinaia di altre sono state ferite, decine di migliaia arrestate. Donne, uomini e bambini sono stati torturati e vittime di abusi in carcere. Alcuni dei dimostranti sono stati condannati alla pena capitale, soprattutto laddove accusati di avere ferito o ucciso un esponente delle forze dell’ordine.

Secondo Amnesty International, nel 2023 sono state 853 le condanne a morte eseguite. Di queste, 481 sono state comminate per reati di droga in seguito a un inasprimento delle pene durante l’amministrazione del Presidente iraniano Ebrahim Raisi (2021-2024). Tra i reati di droga, il 29 percento è stato commesso da iraniani di etnia baluci, ovvero appartenenti a quella minoranza etnica e religiosa (i baluci sono per lo più musulmani sunniti) residenti nella regione del Sistan e Balucistan, al confine con il Pakistan e l’Afghanistan. Una minoranza ribelle nei confronti della Repubblica islamica, anche se due anni fa i baluci erano insorti non per la morte di Mahsa Amini, bensì per lo stupro di un’adolescente da parte del capo della polizia nella località portuale di Chabahar.

Se le iraniane e gli iraniani hanno abbandonato le piazze, convogliando la loro rabbia nella disobbedienza civile, è per la repressione di regime, ma anche per le difficoltà economiche – dovute alle sanzioni internazionali, alla pessima gestione della cosa pubblica e alla corruzione – e per il rischio di un confronto militare diretto con Israele. La Repubblica islamica non ha infatti ancora vendicato la morte sul proprio territorio di Esmail Haniyeh, capo politico di Hamas, ma nel frattempo lo Stato ebraico ha minacciato un attacco all’Iran “a scopo di deterrenza”. Se le autorità di Teheran non hanno ancora attaccato, è per due motivi. In primis perché attaccare vorrebbe dire sollecitare una risposta di Israele e dei suoi alleati statunitensi, con il rischio che vengano prese di mira e distrutte le infrastrutture e quindi anche le centrali nucleari iraniane. In secondo luogo, la diplomazia di Teheran sta cercando di tornare al tavolo dei negoziati per un nuovo accordo nucleare con l’Occidente che possa permettere un alleggerimento delle sanzioni che attanagliano l’economia della Repubblica islamica. Detto questo, gli alleati dell’Iran – gli Hezbollah libanesi, ma anche gli Huthi yemeniti – portano avanti la loro agenda.

Nel frattempo, gli iraniani sono tornati alle urne per eleggere un nuovo Presidente della Repubblica, dopo la morte di Ebrahim Raisi in quello che è stato definito un “incidente di elicottero”, avvenuto lo scorso 19 maggio non lontano dal confine con l’Azerbaigian. Per tornare al tavolo dei negoziati, il neopresidente Masoud Pezeshkian ha ricostituito parte del team nucleare che il 14 luglio 2015 aveva portato alla firma del JCPOA (Joint Comprehensive Plan of Action) a Vienna. Vicepresidente per gli Affari strategici è infatti Javad Zarif, già ministro degli Esteri al tempo del presidente moderato Hassan Rohani. L’attuale capo della diplomazia iraniana è invece Araghchi, anche lui tra i negoziatori della vecchia amministrazione.

In questi due anni sono state numerose le manifestazioni organizzate in Europa e in diverse città italiane dal movimento Donna Vita Libertà nella diaspora, tuttora attivo. È pero evidente lo scollamento rispetto alla composizione e alle istanze del movimento in Iran. Nella diaspora, le voci del movimento Donna Vita Libertà sono infatti assai variegate: attivisti in esilio all’estero, rappresentanti dei Mojaheddin del Popolo, esponenti della società civile europea e italiana che solidarizzano con la lotta delle iraniane e degli iraniani per maggiori diritti.

Paradossalmente, mentre gli iraniani in Iran temono per un attacco militare israeliano, sui social network parte della diaspora iraniana fa invece il tifo per Israele e rinnega la causa palestinese. Inoltre, in questi due anni esponenti della diaspora negli Stati Uniti, in Gran Bretagna e in Italia non hanno esitato ad accusare giornalisti e accademici impegnati nella difesa dei diritti umani di essere invece “agenti del regime degli ayatollah”. E diversi di loro sono stati minacciati di morte dagli attivisti, come accaduto alla giornalista e analista irano-americana Negar Mortazavi residente a Washington D.C., dove dirige Iran Podcast. Secondo i loro detrattori, questi giornalisti e accademici sarebbero colpevoli di appoggiare la ripresa dei negoziati tra Teheran e l’Occidente, e quindi la via della diplomazia che permetterebbe ad ayatollah e pasdaran di restare al potere, placando il dissenso interno con l’alleggerimento delle sanzioni e quindi con la ripresa economica.

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