L’Unione europea, che ha un bilancio comune pari solo all’1% del Pil europeo e a poco più del 2% della spesa pubblica di tutti gli Stati membri, si è costruita soprattutto come una potenza normativa: verso l’interno, prima di tutto, creando standard comuni e di protezione sociale e diritti delle persone, ma anche di incentivi di qualità e di innovazione dei prodotti e delle proprie imprese (oltre il 55% delle legislazioni nazionali sono oggi basate sulla legislazione europea); e poi anche verso l’esterno, ad esempio, attraverso le sue politiche di cooperazione allo sviluppo, l’Europa nel suo insieme è oggi il primo donatore mondiale, con il 46% degli aiuti.
Eppure, di questi dati non si parla, si preferisce parlare di sciocchezze, di farina di grillo, di sostituzione etnica e di altre questioni che magari colpiscono superficialmente l’attenzione per un momento, ma non toccano minimamente il nocciolo della questione europea.
Perché di questioni importanti ci sarebbe da parlare, prima fra tutte la sfida della trasformazione strutturale delle nostre economie, imprese, sistemi di welfare, città, trasporti, formazione, produzione, consumo, ecc. per costruire società più sicure, sostenibili e capaci di mantenere coesione e adeguatezza del proprio modello sociale e di competitività sostenibile.
Poi c’è la questione della nuova personalità politica dell’Unione in un contesto geopolitico in movimento, in cui il tema della guerra sembra essersi nuovamente affacciato alle nostre porte e chiede di essere affrontato e contrastato seriamente. È evidente che il diritto di veto in politica estera va superato e che deve essere ripreso l’antico tema non risolto dell’Unione della Difesa, rivedendo allo stesso tempo il rapporto con il cosiddetto Sud globale, Africa in primis, anche alla luce della crisi climatica che, insieme alle guerre e alla carestia endemica, è un ulteriore elemento di stimolo alle migrazioni.
Infine, c’è il problema della riforma del sistema istituzionale comunitario, a partire dall’abolizione del potere di veto in materie importanti (politica estera, politiche fiscali) e del rafforzamento della propria dimensione democratica, anche con lo sviluppo di stabili forme di democrazia partecipativa che, integrando la democrazia rappresentativa (i Parlamenti), rafforzi il senso di appartenenza e la condivisione delle politiche soprattutto in materia socioeconomica.
Lo abbiamo scritto chiaro e tondo nel nostro documento che cosa vogliamo, sintetizzandolo nel titolo “Pace, Lavoro ed Equità”.
Mai come adesso è necessaria un’Europa che si faccia agente di pace e che sappia avere una voce propria e una voce sola nell’agone internazionale. L’Europa, il mondo intero, sono attraversati da venti di guerra che minacciano la vita delle persone. Questo momento di incertezza richiede un ritorno ai principi fondamentali del dialogo e della cooperazione internazionale: questa peraltro è richiesta dalla mobilitazione internazionale per la pace che emerge, ad esempio, dalle occupazioni nei campus statunitensi, che sono espressione di dolore e di indignazione per le vittime dell’ormai debordante reazione israeliana alla carneficina del 7 ottobre. La centralità del problema della pace è stata riconosciuta da tutte le realtà dell’associazionismo cattolico italiano nel documento comune sottoscritto a Trieste il 4 maggio scorso, che non a caso si intitola: “Il dovere della politica è la pace”.
Mai come adesso è necessario definire il perimetro di una cittadinanza europea che sia fonte di diritti chiari ed esigibili, e che nello stesso tempo sia accogliente per chi viene da fuori, che non può essere abbandonata alle derive elettoralistiche e ideologiche dei singoli Governi nazionali.
Un’Europa dell’accoglienza e dell’integrazione, che non esternalizzi le proprie frontiere, come abbiamo visto nel recente viaggio che come Presidenza nazionale abbiamo fatto a Bihac, in Bosnia-Erzegovina, dove sin dal 1997 e con le comunità locali la nostra ong IPSIA ha costruito progetti di sviluppo economico e sociale, ricostruito luoghi devastati da calamità naturali e da quasi dieci anni interviene per rendere più “umane” le condizioni di vita delle centinaia di migliaia di migranti che transitano sulla cosiddetta “rotta balcanica” per tentare il “game” (il tentativo di attraversare il confine croato sfuggendo agli stringenti controlli della polizia di frontiera).
Non c’è, d’altro canto, soluzione di continuità fra quanti chiedono pace, aumentando però spese militari e retorica bellicista, e quanti a protezione dei principi e dei valori dell’Europa utilizzano le più moderne tecnologie militari per fermare e perseguire migranti disarmati e indifesi.
Mai come adesso è necessaria un’Europa che sappia essere promotrice di equità in rapporti sociali fortemente squilibrati, preservando ed implementando quel modello sociale europeo di cui siamo giustamente fieri, che non è un peso da cui liberarsi, ma un ideale verso cui tendere; un’Europa, insomma, non scontata, ma necessaria e che deve tornare ad essere popolare.
Personalmente credo che la risposta dei partiti politici italiani a queste sfide sia stata ancora debole e contraddittoria, con le pluricandidature in tutte le circoscrizioni di gente che dice chiaro e tondo che a Strasburgo e a Bruxelles non andrà, come se il problema maggiore fosse quello, provincialissimo, di una conta a fini interni di coalizione di partito e non l’idea di Europa che si vuole affermare.
Il rischio, quindi, è di vanificare anche l’occasione dell’appuntamento elettorale dell’8/9 giugno, che meriterebbe ben altra attenzione.
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