Federico Maria Butera – professore emerito del Politecnico di Milano dove ha insegnato Fisica Tecnica Ambientale che da quasi cinquanta anni svolge attività di ricerca, di divulgazione scientifica e progettazione nel settore dell’uso razionale dell’energia e delle fonti rinnovabili – ci offre questo prezioso e sintetico manuale per affrontare la complessa transizione ecologica, destinato alla formazione di tutti noi, interessati alla questione, e in particolare alle giovani generazioni che si stanno formando a scuola e nelle università. La vocazione educatrice di Butera si manifesta nel mostrare con chiarezza problemi, dati e possibili soluzioni.
Occorre quindi accostarsi con la mentalità di compiere uno studio serio e approfondito, per saper cogliere la densità di questo manuale.
«Saggi sul cambiamento climatico e sulla crisi ambientale ormai ce ne sono in quantità, molti di ottima fattura. Ciò che manca, ed è questa la lacuna che si vuole colmare con questo libro, è una visione sistematizzata di tutte le problematiche, delle loro connessioni e delle loro conseguenze, sia in termini biofisici sia sociali ed economici» (p. 9).
Bisogna tenere presente che i dati offerti sono la fotografia del pianeta al 2020, mentre il professore si augura che i ragionamenti, le decisioni da prendere e le azioni da realizzare siano validi per i prossimi decenni.
La prima parte del manuale illustra la questione ecologica nella sua complessità e mostra quali siano i principali 9 limiti fisici del nostro pianeta (vedi la figura a fianco) e mostra come per molti di essi siamo già oltre i limiti di sostenibilità.
La seconda parte affronta più nello specifico le interconnessioni tra alcuni aspetti cruciali della transizione ecologica, di cui un esempio significativo è illustrato dalle seguenti figure riportate di seguito
La terza parte offre alcune riflessioni e proposte su come uscire dalla situazione attuale.
Riporto alcune sintesi proposte con chiarezza e coraggio dal professor Butera:
«Per limitare il danno e non finire in una spirale incontrollabile occorre però fermare le emissioni di gas serra, i processi di perdita di biodiversità e di cambiamento di uso dei suoli. E sappiamo anche come fare. Sappiamo che per farlo occorre mettere in atto alcune trasformazioni:
- produrre di meno nei paesi sviluppati e produrre meglio in quelli in via di sviluppo, realizzando fino in fondo l’economia circolare, nel rispetto del secondo principio della termodinamica, con le conseguenze sui flussi di produzione che ciò comporta;
- trasferire risorse dai paesi ricchi a quelli poveri, affinché possano mettere in atto un modello di sviluppo che non porti a fare aumentare oltre il limite sopportabile la pressione sulle risorse naturali del pianeta;
- ridurre le emissioni causate dal funzionamento di industria, trasporti, edilizia, attraverso la sostituzione delle fonti fossili con le rinnovabili, il miglioramento dell’efficienza delle apparecchiature e una serie di azioni di natura sistemica;
- trasformare radicalmente il modello di produzione agricola, abbandonando quello industriale e attivando l’agroecologia, il che implica, fra l’altro, la riattivazione del rapporto città-campagna per quanto riguarda il ciclo dei nutrienti, che va richiuso il più possibile, e la riduzione al minimo del consumo di carne.
Mettere in atto tutto ciò impone una radicale trasformazione del sistema economico, e non solo, perché ne sono investiti anche valori, cultura, istituzioni» (pp. 284-285).
E ancora:
«Anche l’equità, che sembrerebbe essere un valore esclusivamente umano, in realtà rispecchia fedelmente un valore ecologico, la diversità, anzi ne è il corrispondente. Non esiste un unico valore ottimale di biodiversità: è diverso per ecosistemi diversi, e comunque non è mai il massimo o il minimo possibile, ma un valore intermedio. Quindi equità economica e sociale non significa tutti con lo stesso reddito e tutti a fare lo stesso lavoro: un sistema sociale siffatto non è un sistema stabile. Né, d’altra parte, è sano e stabile un sistema sociale in cui una élite di super ricchi sfrutta tutti gli altri, poveri. L’ottimo sta da qualche parte in mezzo, e il dove dipende dal tipo di sistema sociale e dal suo ambiente.
È proprio in questi ambiti non materiali che si gioca la possibilità di costruire un nuovo modello economico e di mettere in atto la transizione ecologica. E questi ambiti se ne portano dietro altri non materiali, quali quelli legati alle istituzioni. Il diritto, per esempio, dovrà cambiare, perché quello attuale è figlio del modello economico fondato da Adam Smith ed è centrato sulla prevalenza della proprietà privata rispetto ai beni comuni. Dovranno cambiare le Carte costituzionali perché, come già avvenuto in quelle della Bolivia e dell’Ecuador, la difesa dell’ambiente deve rientrare fra i valori base dello stato, alla pari della libertà, della giustizia, ecc.
Dovranno cambiare i modelli di rappresentatività democratica, innanzitutto per superare l’attuale gravissima incompatibilità fra la durata del mandato elettorale e l’esigenza, per ciò che riguarda le politiche di sostenibilità ambientale, di riferirsi al medio-lungo termine. Con ogni probabilità bisognerà attribuire nuovi e diversi ruoli e composizioni alle assemblee rappresentative e l’estrazione a sorte di parte di esse potrà sostituire l’elezione.
In definitiva quindi saranno necessari sostanziali cambiamenti in tutte le direzioni, dalle attività umane — che non privilegeranno più la produzione e il consumo ma la manutenzione — agli stili di vita, dalla revisione dei valori alla cooperazione alla scala nazionale e a quella globale.
Il concetto di globalizzazione dovrà cambiare. Servirà una nuova forma di globalizzazione, che valorizzi le diversità culturali, ambientali, territoriali, invece di cercare di uniformare tutto come la globalizzazione ha finora fatto, rendendo indistinguibile il centro di Pechino da quello di Lima, da quello di Londra, eccetto, e in parte, per la lingua delle insegne. Ci sarà sempre del commercio internazionale, ma limitato a ciò che altrove non si può produrre per motivi culturali o climatici o per le caratteristiche fisiche territoriali, non per convenienza economica.
Alcuni, troppi, pensano che cambiare l’attuale modello economico, i nostri stili di vita, sia una follia suicida, perché la nostra creatività ci salverà mediante la tecnologia, risolvendo tutti i problemi. Non è così. O almeno non se si tratterà di tecnologie tendenti a consolidare il modello economico e culturale attuale. A salvarci, invece, sarà un salto di paradigma culturale. Non più competizione più importante della cooperazione e della solidarietà. Non più natura come altro da noi, da sfruttare, ma noi come parte della natura. Non più livello di sviluppo di una civiltà misurato in termini di ricchezza di beni materiali» (pp. 287-288).
Per concludere questo invito allo studio di questo manuale, per poter agire con più consapevolezza della complessità della transizione ecologica, riporto questa ulteriore citazione:
«Allora, il primo e indispensabile passo per avviare il nuovo paradigma evolutivo della civiltà umana, quello in armonia con la natura, è basato su qualcosa di impalpabile e non monetizzabile, che si può sintetizzare in quattro parole che declinano l’etica dello sviluppo sostenibile:
- solidarietà (controllo della competizione portata alle estreme conseguenze);
- condivisione (uso condiviso di beni e servizi);
- equità (riduzione delle disparità economiche e sociali);
- sobrietà (opposizione al consumismo)» (p. 286).
Buono studio e all’azione con coraggio!
Federico M. Butera, Affrontare la complessità. Per governare la transizione ecologica, Edizioni Ambiente, Milano 2021.
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