rnrnrnrn
Sono parole che spiazzano e che incidentalmente l’Ufficio delle letture propone alla meditazione proprio nei giorni in cui dall’India giungono notizie di gravi violenze verso i cristiani.
La condanna dei fatti e la mobilitazione – reazioni primarie e necessarie – possono lasciare un piccolo spazio anche alla riflessione, facendoci considerare almeno due aspetti in qualche modo affidati alla nostra attenzione.rn
Il primo riguarda l’unanimità della denuncia, cosa che nell’era dei diritti umani e della democrazia tendiamo a dare per scontata, ma che invece è il frutto sofferto di una lenta maturazione della cultura occidentale. Il valore della vita e dell’integrità dell’uomo – che più semplicemente condensiamo nella parola «dignità» – è stato faticosamente interiorizzato: la spontaneità delle reazioni è il segno dell’esito felice di una educazione che ha dovuto passare attraverso grandi errori ed orrori per guadagnare il senso dell’inviolabilità dell’umano. Da questo punto di vista andrebbe seguita una traccia segnalata da Antonio Papisca: i dibattiti antropologici contemporanei che si affaticano su darwinismo, naturalismo e dintorni per stabilire come vada intesa la dignità (e se davvero copra tutti ed in ogni circostanza) non farebbero male a tener conto di questa eccezionale convergenza pratica e transculturale, che appunto si condensa nel riconoscimento dei diritti umani. Quasi a dire che il corso della storia, con i suoi drammi e le sue sofferenze, ha fatto maturare ad espressione una consapevolezza ben radicata nell’intimo dell’umanità: nel riconoscimento della dignità propria e altrui l’uomo di ogni latitudine geografica e culturale scorge il proprio volto più autentico. E forse per via storica anticipa una risposta ad interrogativi che – talvolta artificiosamente – vengono sollevati per via scientifica.
Il secondo aspetto affiora da queste ultime osservazioni: anche ammesso che l’umanità stia lentamente mettendo a fuoco il proprio volto più autentico, ciò non toglie che le violazioni permangano. E non solo in India, come in queste ore. Dove ricercare la radice di questo iato tra il dichiarato e la prassi? L’analisi potrebbe imboccare molteplici percorsi, ma se vogliamo seguire la lettura cristiana del martirio – secondo le suggestioni di san Beda – possiamo forse mettere a fuoco un dramma che avvolge l’esistenza dell’uomo ed in fondo segna la biografia di ciascuno: il riconoscimento della «statura» a cui si è chiamati (questa è in fondo la «verità» di cui parla il Venerabile) è cosa ad un tempo straordinaria e terribile, perché porta con sé l’immediata avvertenza di ciò che rimane da compiere e svela gli aspetti di inautenticità del proprio vivere. Lo spazio che separa il detto dal fatto è dunque di natura interiore. Il martire ci richiama alla bellezza dell’umano ed al tempo stesso alla necessità della maturazione, della crescita morale, dell’esercizio spirituale. Ma tutto queste è appunto straordinario e terribile, perché il richiamo non incontra buona accoglienza, e talvolta ha il costo della vita.
Il cuore del dramma, però, consiste in qualcosa di poco luminoso di cui tutti facciamo esperienza: da dove sorge questa ostilità verso chi ci invita, talvolta senza il bisogno di parole, a ciò che potremmo essere – e nell’intimo evidentemente desidereremmo essere? Che cosa rende così inviso il giusto, al punto che, come ricorda spesso la Scrittura, in molti sono coloro che tramano per toglierlo di mezzo? È sufficiente il fatto che ci prospetti percorsi faticosi ed impegnativi?
I martiri di ogni tempo, i giusti di ogni civiltà e cultura invitano anche a meditare sul mistero di questa intensa lotta che attraversa la storia, spesso tingendosi di sangue, e che – proprio come ci ha aiutato a dire Dostoëvskij – si svolge anzitutto nel cuore dell’uomo.