Per chi non è nuovo della materia, è sufficiente scorrere il testo degli 8 commi di cui si compone l’unico articolo per scorgere una replica, punto su punto, alle obiezioni che nel 2004 avevano permesso alla Corte Costituzionale di eliminare il c.d. Lodo Schifani. A conferma di questa (banale) deduzione, è sufficiente glossare la relazione di presentazione dove la sentenza della Corte viene recuperata ad ogni piè sospinto quale “musa ispiratrice” del testo di legge.
In altri termini, gli stessi profili che hanno fondato l’abrogazione del c.d. Lodo Schifani ora vorrebbero costituire, e in effetti costituiscono, una sorta di “timbro di costituzionalità” per il Lodo Alfano.
Difatti… escluso dai destinatari del provvedimento il presidente della Corte Costituzionale; …offerta la facoltà alla parte civile di procedere in altra sede senza attendere la ripresa del processo; …concesso all’imputato la rinunciabilità alla sospensione e ai magistrati di procedere nell’assunzione delle prove «non rinviabili»… il castello di censure del 2004 ora dovrebbe sciogliersi come neve al sole affinché il Lodo abbia lunga vita.
Se da un punto di vista formale così fosse non si capisce perché una domanda sfiora le labbra di così tanti cittadini: è giusto che nel nostro ordinamento vi siano soggetti “più uguali” degli altri?
Vorremmo sorvolare con la maggior grazia possibile le molteplici letture che in questi giorni non hanno fatto altro che giustificare (o demonizzare) l’approvazione alla Camera del Lodo come mossa prevista nell’eterno scontro tra Berlusconi e la magistratura. Sappiamo tutti che questa lettura, oltre ad essere di per sé banale, è talmente superficiale che impedisce forse di cogliere questioni ben più profonde.
Volendo, per inciso, proseguire l’analisi giuridica sul testo permangono almeno due talloni d’Achille e una “svista” (inevitabile). I talloni sono la “scelta” della legge ordinaria al posto di quella di rango costituzionale e la non facile conciliazione del provvedimento con l’art. 3 Cost. La “svista” (inevitabile, perché non paiono esserci alternative) è data dalla prevista facoltà della parte civile di proseguire l’azione in sede propria (derogando alle regole generali). Questa, infatti, nel concreto potrebbe ledere il diritto tutelato dall’art. 24 Cost. dal momento che la parte civile sarebbe costretta ad un nuovo giudizio e a tempi di certo non brevi, specie nel caso in cui il processo penale sia pervenuto a uno stadio oramai prossimo all’epilogo (ad es. in Cassazione).
Ma le questioni di fondo, come già anticipato, paiono essere altre.
Nello specifico, in attesa di conoscere il testo delle relazioni che oggi (n.d.r.: 16 luglio) esporranno in Commissione due presidenti emeriti della Corte Costituzionale (Marini e Zagrebelsky) e di assistere alla definitiva approvazione lunedì prossimo anche al Senato, vorremmo cogliere alcune riflessioni che il Lodo provoca in ordine al principio di uguaglianza. L’art. 3 Cost. dichiara anche che «Tutti i cittadini (…) sono eguali davanti alla legge, senza distinzione (…) di condizioni personali e sociali». Partendo da queste parole approvate dall’Assemblea Costituente nell’ormai lontano 1947 (che con l’art. 68, probabilmente, avevano allora meglio di oggi trovato il giusto compromesso), vorremmo stimolare la riflessione perché un’uguaglianza davanti alla legge a prescindere dalle proprie “condizioni personali e sociali” parrebbe fornire già qualche spunto di risposta all’obiezione che sfiora le labbra degli italiani.
Ma procediamo con ordine.
Nei dibattiti delle ultime settimane si è detto che il principio di uguaglianza inteso alla lettera vale (solo) per regolare situazioni “uguali”, mentre davanti a fattispecie “diverse” è lo stesso art. 3 che prescriverebbe discipline (giuridiche) distinte. Potremmo anche essere d’accordo sul punto se non fosse che tale “diversità” costituisce un giogo ipotetico finora poco giustificato… in che senso un presidente della Camera dei deputati può essere riconosciuto come cittadino “diverso” rispetto al dott. Rossi?
Inoltre, in questi giorni si è detto pure che la sospensione permetterebbe alla nostra nazione di “salvaguardare l’immagine dell’Italia anche a livello internazionale”.
Ed eccoci ad un nucleo importante. Infatti, non si comprende come non potrebbe onorare ben più l’immagine della cara Italia il conservare una condotta che non sia passibile di alcuna censura. E non si dica che tale sarebbe una richiesta troppo “alta” per un (semplice) cittadino perché, proprio sulla scia della la prospettiva citata nel paragrafo precedente, nel caso di specie non si discute del comportamento dell’ing. Rossi o dell’imprenditore Bianchi, ma di quegli stessi uomini che avrebbero l’intenzione (e hanno, comunque, l’autorità) di condurre e rappresentare l’intera nazione e che in quanto tali vorrebbero essere riconosciuti come “diversi” dai cittadini comuni. In sintesi, un’aporia.
A questo punto, allora si potrebbe ragionare sul fatto che l’intento del legislatore non sia tanto quello di destabilizzare lo stato di diritto quanto quello di “sacralizzarne” le figure di rilievo.
Come già in passato, i “regnanti” odierni vorrebbero essere riconosciuti diversi, perché “migliori”, dagli altri cittadini proprio in quanto legibus soluti, democraticamente parlando, ovviamente, e quindi (loro malgrado) solo a tempo determinato.
Ecco che, nel concreto, le questioni celate dal Lodo Alfano sono “altre”, non perché estranee a quelle diffuse nelle pagine dei nostri quotidiani, ma perché di queste ne sono le fondamenta… il principio di sovranità, il principio della maggioranza, l’effettività del diritto.
In quali termini, nel nostro ordinamento giuridico, è possibile chiedere una autorevolezza della sovranità non avviluppata alla (sola) forza dei numeri? Ed inoltre, quale legame è possibile accettare oggi tra il principio di maggioranza e un regime democratico?
Tentando di cogliere la problematicità offerta da questi temi, la riflessione potrebbe alzare lo sguardo e procedere oltre il Lodo Alfano per ricomprendere questo assieme ad altre, e forse più rilevanti, “novità” normative come la riforma della giustizia che lo stesso ministro avrebbe promesso per settembre (quanto alla norma “blocca-processi” sussiste, finora, una decorosa fase d’arresto).
Convinti, come ci insegna la storia, che il “nuovo” non possa di per sé dirsi “buono”, non resta che verificare punto su punto le proposte che si avvicenderanno in un ambito, quello della Giustizia, che davvero esige non solo un cambiamento ma un concreto miglioramento.
Un miglioramento, utinam, che sia per tutti i cittadini «senza distinzione (…) di condizioni sociali e personali».