Siamo di fronte ad un cambiamento strutturale nelle dinamiche dei prezzi dei prodotti agricoli. Nel corso degli ultimi due decenni innovazioni tecnologiche e aumento delle rese avevano incrementato l’offerta a fronte di una domanda poco elastica (se un prezzo di un bene alimentare si riduce non si utilizza in genere l’aumento di potere d’acquisto per comprarne quantità maggiori) determinando trend di riduzione dei prezzi frammisto a molta volatilità.

Dal marzo 2007 al marzo 2008 però lo scenario è bruscamente cambiato. Il prezzo del mais è aumentato del 31 per cento, quello del riso del 74 per cento e quello del grano addirittura del 130 percento.

Due delle cause principali sono quelle dell’aumento dei consumi di carne e, conseguentemente, della domanda di mangimi e l’aumento dei costi di gasolio e fertilizzanti. Una terza causa decisiva è l’utilizzo di parte delle terre coltivabili per la produzione di bio-combustibili. Ancora una volta si dimostra l’incapacità del genere umano, in un mondo iperspecializzato e in un sistema economico che è la risultate di innumerevoli decisioni centralizzate, di ragionare a tre dimensioni. Abbiamo oggi di fronte infatti tre problemi fondamentali: i) quello della povertà, con lo zoccolo duro di “incagliati” (secondo una classificazione, che ha tutti i suoi limiti, il miliardo di persone sotto il dollaro al giorno), esclusi dal mercato, che non possono trarre benefici dall’esplosione della crescita nei paesi poveri ed emergenti finché manca l’accesso al credito e istruzione; ii) quello del deterioramento ambientale, una guerra mondiale silenziosa che uccide circa 400.000 persone l’anno in Cina e 40.000 solo in Italia; iii) quello del malessere delle società opulente, del paradosso dell’infelicità, con paesi ricchi (le “società della paura”) dove aumenta costantemente il consumo di antidepressivi e si accentua una crisi delle relazioni che alimenta isolamento e insicurezza.

Nessuno appare in grado di fare scelte in grado di agire virtuosamente in contemporanea sulle tre dimensioni perché i saperi sono divisi e le lingue non comunicano in una Babele di voci dove si contrappone chi sottolinea l’importanza di crescere, consumare di più ed aumentare la produttività e chi invece lancia inviti alla sobrietà e alla riduzione dei consumi.

L’impennata dei prezzi dei beni alimentari rappresenta l’ennesimo esempio di quest’incapacità di ragionare a tre dimensioni. Pensando di risolvere il problema delle fonti di energia (riducendo la dipendenza da quelle più inquinanti come carbone e petrolio) con la produzione di biocarburanti, una possibile soluzione al problema ambientale si trasforma in una trappola per i paesi poveri aumentando la domanda e facendo lievitare i prezzi. Le conseguenze sono le sempre più numerose e drammatiche notizie di “assalti ai forni” di memoria manzoniana che arrivano da molti paesi poveri del mondo. Ma effetti non irrilevanti arrivano anche nei paesi ricchi con il record dei cittadini che dipendono dai sussidi alimentari negli Stati Uniti e del numero di coloro che fanno fatica ad arrivare alla quarta settimana in Italia.

Il problema non è nè la globalizzazione, nè il mercato. Il problema siamo noi. A fronte di processi virtuosi ma lentissimi di aggiustamento “semiautomatico” determinati dalle rimesse dei migranti (più di trecento miliardi di dollari l’anno secondo la Banca Mondiale) e della crescita dei salari nelle zone in cui le imprese occidentali stanno delocalizzando ci mettiamo sempre del nostro per peggiorare le cose.

Che la scala dei valori su cui si fonda il funzionamento della nostra economia sia completamente sballata (e che ciò renda impossibile evitare questi drammi) si vede da tantissimi episodi. L’ ultimo sotto gli occhi dei riflettori è il sistema di regole assurdo dove manager miliardari privatizzano i profitti e socializzano le perdite, portando sull’orlo del fallimento colossi bancari e finanziari e chiedendo l’aiuto degli stati e delle banche centrali nei momenti di difficoltà, mettendo a rischio migliaia di lavoratori ed uscendone con “paracadute d’oro” di liquidazioni miliardarie.

Lo scandalo non è mai negli strumenti o nelle cose (tutto ciò che esiste può essere utile se utilizzato bene e gli strumenti di finanza derivata nascono con le migliori intenzioni di ripartire il rischio tra diversi soggetti). Lo scandalo è nel come utilizziamo tali strumenti e sulla base di quali scale di valori, ovvero nel meglio che potremmo fare (e che per alcuni beneficiari rappresenta il necessario per sopravvivere) e non facciamo. Finchè sarà normale “sprecare” miliardi di dollari quando bastano poche centinaia di migliaia di euro a finanziare programmi di accesso al credito e all’istruzione, ciò vorrà dire che la vita di una persona non vale nulla e lo scandalo rimarrà tale.

Le visioni più ottimistiche tra gli economisti affermano che basta la crescita a migliorare le condizioni dei poveri nei vari paesi perché la liquidità creata sgocciola (trickle down) in basso e finisce per beneficiare anche le classi meno abbienti. La stragrande maggioranza degli studi sullo sviluppo economico dimostrano che questo non basta e che nelle storie virtuose ci vogliono molti elementi (qualità dei governi e delle istituzioni, capitale sociale ed umano, investimenti) che concorrono a determinare quel quadro positivo che genera inclusione e sviluppo.

La differenza nell’economia globale è che, come cittadini, consumatori e risparmiatori che votano col portafoglio, abbiamo oggi molte opportunità per essere protagonisti dando il nostro contributo alla creazione di valore economico in maniera ambientalmente e socialmente sostenibile e stimolando istituzioni ed imprese a muoversi più rapidamente in tale direzione. Per far ciò bisogna passare dal vittimismo e dallo spettro della congiura dei grandi poteri alla consapevolezza di un mondo possibile dove cittadini, imprese ed istituzioni (sollecitati dall’azione dal basso della società civile) possono aiutarsi reciprocamente a costruire una società sostenibile. Ma questa maturità è ancora lontana dall’essere raggiunta.

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