A quasi un anno dall’inizio della “rivolta araba” è tornata a ribollire piazza Tahrir, ben nota a chiunque abbia visitato anche fugacemente il Cairo, poiché su di essa si affaccia il Museo egizio, che era peraltro in procinto di trasferirsi in una nuova e più spaziosa sede. L’Esercito, che all’inizio di quest’anno era stato salutato dai dimostranti come “liberatore”, poiché aveva allontanato la polizia bloccandone la dura repressione ed aveva poi imposto il ritiro del Presidente Mubarak, che pure proveniva dalle Forze Armate essendo un Generale dell’Aeronautica, ora ricompare nella veste di repressore, a fianco della polizia stessa.

Al di là di questo cambio di ruolo dell’Esercito, ben poche sono le certezze. Prendo ad esempio il commento di un giornalista televisivo che suona più o meno così: «Nella folla che protesta vi sono liberali e comunisti, laici ed integralisti tutti uniti nella protesta contro la repressione dei militari». Insomma una folla d’accordo su cosa distruggere, ma non su cosa costruire. Ovviamente la simpatia va tutta ai dimostranti, oggetto di un attacco che ha provocato morti e feriti (si parla di 30 morti ed un migliaio di feriti, compresi 85 agenti, ma le cifre sono in continuo aggiornamento) e suscitato commenti usuali in questi casi, ma non per questo meno estemporanei e superficiali: «I generali sono peggio di Mubarak». Così ha dichiarato Bothaina Kamel, unica candidata donna alle elezioni presidenziali, prima di essere arrestata.

Ciò che viene contestato è una transizione alla “democrazia” sulla base di un calendario elettorale incredibilmente lungo: elezioni parlamentari per la Camera bassa da fine novembre alla prima metà di gennaio, seguite dalle elezioni per la Camera alta da fine gennaio a metà marzo, dopodiché le nuove elezioni presidenziali si terrebbero solo a fine 2012 o inizio 2013. Nel frattempo manterrebbe il potere supremo la Giunta militare, guidata da un anziano esponente del vecchio regime, il Maresciallo Hussein al Tantawi, 76 anni, dal 1991 ministro della Difesa e Comandante in capo delle Forze Armate. Dopo gli ultimi scontri, in un discorso televisivo egli ha promesso di anticipare le elezioni presidenziali ed ha dichiarato che le Forze Armate «sono del tutto pronte a cedere immediatamente il potere ed a ritornare al loro dovere originario di proteggere la Patria se questa è la volontà del popolo, espressa se necessario attraverso un referendum popolare». Sembra difficile credere alla piena sincerità di questo proposito, considerando che le Forze Armate controllano il potere politico dal colpo di Stato del 1952 dei cosiddetti “ufficiali liberi”, che pose fine non solo alla monarchia, ma anche alla democrazia, hanno vasti interessi economici e godono di molti privilegi.

Nei mesi scorsi si era parlato di un accordo di spartizione del potere tra i Fratelli musulmani e le Forze Armate, che avrebbe rappresentato un pericolo sia per la democrazia che per la laicità. Ora sembra che i Fratelli musulmani, pressati dagli estremisti salafiti, promuovano o quanto meno cavalchino le proteste. Sempre per restare ai fattori religiosi, cresce la forte preoccupazione della comunità copta (circa il 10% della popolazione) per l’ulteriore avanzata della islamizzazione.
Comunque evolvano le cose, l’Esercito egiziano difficilmente vestirà i panni del “liberalizzatore”; infatti, o conserverà il potere in prima persona o lo spartirà con una forza integralista come i Fratelli musulmani. Insomma nessun “modello turco”, dove le Forze Armate avviarono il Paese alla democrazia e sono tradizionalmente le custodi della laicità, mentre il Partito islamico del Premier Erdogan appare (la realtà si vedrà alla distanza) come una versione musulmana della Democrazia Cristiana. Dal punto di vista storico, negli anni trenta del XIX secolo Mehemet Alì fu il fondatore dell’Egitto moderno e tale esempio riformistico si diffuse poi anche nell’Impero ottomano; oggi invece è il modello turco ad apparire più avanzato, ma il Cairo non lo segue.
Non bisogna inoltre dimenticare che dietro la decisione che i militari presero all’inizio dell’anno di scaricare Mubarak vi erano gli americani, con i quali le Forze Armate egiziane hanno legami assai stretti. Washington abbandonò frettolosamente il vecchio Rais, alleato fedele, puntando sulla carta di militari riformisti. Washington rischia di rimanere delusa, ma non si vede come potrebbe agire efficacemente, considerando l’evidente ridimensionamento dell’impegno americano nel Mediterraneo a favore di altri teatri, come il Pacifico.
In conclusione si ha la conferma che le situazioni generate dalla “primavera araba” sono variegate, complesse e non riconducibili ad uno schema unitario. In Libia è esplosa una guerra civile con intervento decisivo della NATO ed epilogo cruento. La Siria appare avviata anch’essa ad uno scontro decisivo, ma senza intervento militare dell’Occidente. In Tunisia si è compiuta una transizione pacifica, che comunque metterà in discussione le caratteristiche laiche dello Stato. L’Egitto è in bilico ed è difficile immaginare l’esito finale; comunque esso non potrà prescindere dal ruolo dell’Esercito.

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