Il primo viaggio nel Vecchio Continente è stato un grande successo mediatico e politico per il nuovo Presidente americano. Barack Obama è stato ammirato per il suo stile semplice ed efficace, per la calma zen e la capacità di negoziare e riconciliare parti distanti tra loro. 

È stato in buona parte merito suo, se il Summit G20 ha avuto un successo tale da rimettere in causa il futuro della governance globale – che sempre meno nel futuro potrà essere ristretta agli happy fews del mondo industrializzato.
Le novità introdotte da Barack Obama nei primi 4 mesi sono tante e tali da fare girare la testa. Il dialogo con la Russia è ripartito non solo nelle parole ma anche nella sostanza con la ripresa dei negoziati post-Start. Ricordando di essere “one of them”, cioè di far parte di una famiglia religiosamente e non solo etnicamente mista, Obama ha lanciato un ponte verso il mondo mussulmano; ha teso la mano a coloro a cui aveva chiesto di “aprire il pugno”, l’Iran. Al Summit of Americas tenutosi a Trinidad and Tobago ad aprile, ha rilanciato le già difficili relazioni con l’America Latina verso un futuro migliore. Gli Stati Uniti hanno posto la loro candidatura nel Consiglio per i Diritti Umani ONU, mostrando rinnovata fiducia nel ruolo delle istituzioni multilaterali e nel multilateralismo. La nuova politica estera americana ha carattere globale; si cimenta su sfide regionali e transnazionali su scacchieri diversificati. Come ha detto il Segretario di Stato Hillary Clinton in audizione al Senato a fine aprile, "We are not just a trans-Atlantic power, but a transpacific power”. rn

In tale quadro, l’Europa non è più una priorità dell’America. Nell’audizione Hillary Clinton ha menzionato specificamente diversi Paesi – inclusi Corea del Sud, Giappone, India, Indonesia, Brasile, Turchia – ma nessuno degli europei. Le relazioni transatlantiche non sono più quelle che erano durante la guerra fredda. Non concernono più i rapporti (bilaterali) tra le due sponde dell’Atlantico, bensì quello che le due sponde dell’Atlantico possono fare insieme per risolvere i numerosi problemi del mondo: la crisi finanziaria, le crisi in Medio Oriente e in Mid-Asia, il problema del clima e dell’approvvigionamento energetico, l’accesso alle fonti di acqua potabile, il rilancio della non proliferazione, sono solo alcuni degli esempi dei problemi che possono essere risolti solo globalmente e per i quali la stretta collaborazione ed il coordinamento tra le due sponde dell’Atlantico costituiscono la conditio sine qua non per il successo.

In altre parole, le relazioni transatlantiche sono oggi ad un livello di maturità tale che non hanno più bisogno di specifiche “dimostrazioni di affetto” ogni volta che arriva un nuovo Presidente USA. Il bisogno di riaffermare pubblicamente la forza di una relazione è prova, a contrario, della sua debolezza. Oggi come oggi, la debolezza viene dalla parte europea. Sono gli europei che, come un partner che subodora il tradimento, chiedono continue conferme. Hanno paura di essere rimpiazzati dall’Asia. Che l’Asia sia la priorità odierna degli USA lo si era capito subito, il primo viaggio all’estero del Segretario di Stato Hillary Clinton non ha lasciato spazio ai dubbi. Del resto non potrebbe essere diversamente: la Cina ha in pugno il debito pubblico USA ed è dalla regione Mid-Asia che arrivano oggi i maggiori rischi in termini di sicurezza e stabilità. Quello che gli europei non capiscono è che gli USA – dopo tanti anni di sostegno e collaborazione – considerano la relazione transatlantica come data, cioè come parte fondante della loro politica estera. Gli americani sono noti per il loro spirito pratico, non per il loro romanticismo: come in una relazione matura e consolidata oggi non chiedono (e non offrono) più fiori, bensì atti concreti. Sono naturalmente spinti alla frontiera e costantemente alla ricerca del miglioramento. “Darling – per il bene della nostra famiglia – I’d better take that job overseas. Are you with me?” Questa è sostanzialmente la domanda che gli USA stanno ponendo agli europei. Ed oggi come oggi, non stanno avendo la risposta che speravano di ricevere. Non è tanto (solo) una questione di uomini e mezzi. È soprattutto una questione di convinzione: siete con noi perché ci credete, perché siete convinti che sia per il bene di entrambe – o solo perché stiamo insieme e quindi sentite un non convinto obbligo morale a seguirci?

Un risultato positivo in AFPAK – inteso non solo come pacificazione dell’area ma anche e soprattutto come affermazione della rule of law, dei principi della democrazia e del rispetto dei diritti umani – è l’unica cosa che può lavare l’onta dell’Iraq e rendere nuovamente credibili l’Occidente ed i suoi principi e valori, quelli per i quali i nostri antenati comuni hanno perso la vita, hanno lottato, sono sopravvissuti nei secoli alle guerre ed a orrori di ogni tipo. Insomma, in Afghanistan ed in Pakistan sono ormai in gioco i nostri valori più sacri. La questione non è più perché siamo andati nella regione. Probabilmente abbiamo seguito una strategia errata prima in Iraq e poi in Afghanistan, ma tant’è, ormai ci siamo e non abbiamo alternativa, non possiamo far altro che ballare, insieme.

Ma gli europei, che si sentono insicuri, abbandonati dal partner di una vita e che non hanno la fortuna di avere leader dai quali trarre ispirazione, non stanno affatto ballando uniti. Stanno dando un pietoso spettacolo di disunione che alla fine non potrà che logorare la pazienza degli USA e la relazione con essi. La solidarietà europea in materia di politica estera (ma non solo) è ormai sostituita dalla concorrenza, spesso sleale, tra stati membri. Dalla mancata capacità di arrivare ad una posizione europea su Durban II alla disunione sul disarmo nucleare, dalle competing views sul futuro della governance globale a quelle sul futuro del Consiglio di Sicurezza ONU – è tutto un andare sparso, giocando ciascun per sé e contro tutti, facendo alla fine solo il male comune.

Eppure il secondo semestre del 2008 aveva mostrato che una leadership capace ed ambiziosa, ed una collaborazione efficace tra paesi può fare la differenza: Nikolas Sarkozy era con successo riuscito a prendere l’iniziativa conducendo alla riunione del G20 a Washington; nella crisi Georgia – Russia, operando sinergicamente con gli altri europei, in primis l’Italia, è riuscito ad ottenere il cessate il fuoco; ha condotto alla prima missione navale della storia dell’UE sulle coste della Somalia per combattere gli attacchi dei pirati; ha spinto l’UE a rinforzare la sua “partnership strategica” con la NATO. Ma Sarkozy aveva soprattutto mostrato che, qualora guidata dinamicamente da un leader carismatico e capace, l’Unione Europea può essere un attore mondiale. La lezione avrebbe dovuto essere chiara: è necessario ratificare il Trattato di Lisbona al più presto e altrettanto velocemente individuare il nuovo Presidente UE e l’Alto Rappresentante scegliendo tra leader politici europei capaci e proattivi. Ma così non sarà, la crisi ceca rischia di metter la parola fine anche al Trattato di Lisbona mostrando così che al peggio, purtroppo, non c’è mai fine.

Certo, nell’ultimo scorcio del 2008 l’UE aveva approfittato di un periodo di vacuum nel sistema delle relazioni internazionali. La divisione tra europei degli ultimi mesi, a causa della mancanza di leadership della presidenza ceca e della corsa a fare il primo della classe da parte dei paesi membri ha significato una sola cosa: che gli USA hanno ripreso nelle proprie mani l’iniziativa – Russia e Iran sono solo due esempi.

Tuttavia, un’Unione Europea forte e coesa costituisce uno specifico interesse nazionale per i nuovi USA. Come ha detto la Senatrice Clinton nell’audizione in Senato per la sua conferma a Gennaio 2009: “When America and Europe work together, global objectives are well within our means”. Il problema è che gli europei non hanno ancora capito che un’Unione Europea forte e coesa costituisce anche e soprattutto un loro interesse nazionale. L’UE è dunque ad un bivio. Se continua così sarà sempre più insignificante e unitamente al crescere del ruolo delle grandi potenze emergenti, finirà per diventare assolutamente marginale nelle relazioni internazionali. Ed è un paradosso, perché gli studi di settore mostrano come sia le opinioni pubbliche che i leader dei paesi stranieri nutrono grandi aspettative e fiducia nella (futura) politica estera UE. È l’ora che i governi europei prendano atto che, se vogliono contare e fare la differenza debbono unirsi: come nel WTO dove negoziando con un’unica voce l’UE ha giocato per anni un ruolo fondamentale, così deve essere negli altri fori internazionali, dalle Nazioni Unite ai vari G8. è l’ora che le politiche domestiche degli Stati membri smettano di essere causa di disunione sulla scena globale. Se la Francia ha problemi interni per la reintegrazione nella NATO – tanto per fare un esempio – non può far pesare ciò a livello UE; gli europei dell’Est devono smettere di temere una nuova guerra fredda e capire che, entrando nell’UE, hanno firmato la migliore polizza di assicurazione sul futuro della loro vita. Se tutto questo non avverrà, se gli europei continueranno ad andare in ordine sparso e disperdere così forze ed energie finirà che gli USA faranno da soli anche dove avrebbero voluto e potuto fare insieme. Ma una volta mission accomplished, come partner delusi, chiederanno il divorzio dalla Old Europe, incapace di dare e di condividere. 

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