Nel prossimo triennio, dunque, il fabbisogno riguarderà per il 40% figure di alto profilo (high skill), per il 33% figure di livello intermedio e nel 27% profili non qualificati. Ma il fatto nuovo è nei prossimi anni è prevista una crescita del 30% del fabbisogno di figure high skill e del 16% per le figure di livello intermedio.
La domanda che sorge spontanea è quindi la seguente: è in grado il nostro sistema di garantire le competenze professionali necessarie a rispondere alla nuova domanda di lavoro? Difficile dirlo ma quel che è certo e che per quattro imprese su dieci tra quelle che intendono assumere gran parte delle high skills sono di difficile reperimento. Gli imprenditori incontrano serie difficoltà nel reperire analisti e progettisti di software, ingegneri meccanici, specialisti in scienze economiche, ingeneri industriali e gestionali tecnici programmatori ma anche rappresentanti di commercio, tecnici della vendita e della distribuzione. Insomma il cuore di quelle professioni più strettamente legate alle innovazioni di processo e di prodotto.
Ciò dipende da due fattori: da una parte dalla storica mancanza di “passerelle” tra il sistema della formazione tecnica ed universitaria ed il sistema produttivo e, dall’altra, dalla assenza di un sistema di intermediazione efficiente che consenta alle imprese di intercettare le competenze necessarie ai propri piani di innovazione. In Italia gran parte della domanda di lavoro resta “nascosta” e quasi mai le aziende, soprattutto le piccole e medie, scelgono i canali formali dell’intermediazione (agenzie pubbliche e private autorizzate). Parallelamente l’offerta di formazione professionale inziale e continua, soprattutto quella di livello tecnico specialistico messa a disposizione da parte delle regioni, si contrae significativamente. Secondo i dati Eurostat nel 2006 partecipavano alla formazione professionale in Italia circa 911 mila persone. Nel 2014 il loro numero si è ridotto a 620 mila con una contrazione di quasi trecentomila partecipanti.
Ma i problemi non riguardano solo l’offerta di formazione. Dalla analisi delle comunicazioni obbligatorie si evince, ad esempio, che l’apprendistato per l’alta formazione e la ricerca – che dovrebbe rappresentare il principale strumento per favorire l’ingresso di personale giovane e qualificato in azienda – è fermo al palo. Si contano in tutto il 2016 appena 728 contratti di cui la gran parte nelle grandi imprese manifatturiere di Lombardia e Piemonte. Eppure l’apprendistato cosiddetto di terzo livello, oggi realizzabile anche attraverso il modello duale, beneficia di fortissimi incentivi economici che dovrebbero stimolare le imprese ad utilizzarlo.
Si potrebbe continuare con esempi di questo tipo ma la sostanza non cambierebbe. Per accompagnare il processo di innovazione sostenuto dal Industria 4.0 c’è bisogno di un forte investimento sulle politiche attive ed in particolare sui servizi di intermediazione e sulla formazione professionale specialistica, sostenendo il sistema delle imprese anche nel ricorso alle forme contrattuali incentivate tra cui appunto l’apprendistato di terzo livello.
Con il Jobs Act e con l’insieme degli interventi normativi che hanno ridefinito il quadro nazionale delle politiche attive del lavoro (non ultima l’istituzione dell’Agenzia nazionale per le politiche attive del lavoro) sul piano strettamente normativo e regolamentare si è fatto molto ma manca ancora “la messa a terra” di tali principi ossia la traduzione delle indicazioni contenute nel decreto legislativo 150/2015 in interventi operativi soprattutto nelle regioni del mezzogiorno.
Solo garantendo investimenti adeguati sulla formazione professionale post diploma (ad esempio attraverso gli ITS) sui servizi di intermediazione e sulle diverse forme di alternanza formazione lavoro sarà possibile creare le condizioni di contesto necessarie e garantire il successo di Industria 4.0 uno dei programmi più ambiziosi (almeno sulla carta) che il nostro paese abbia messo in campo nell’ambito delle politiche industriali.